La via Imbonati, a Milano, attraversa un quartiere semiperiferico puntando verso le strade che conducono a Como. È diritta, molte case simili, stessi piani, nello stile tra il popolare e l’impiegatizio di un secolo fa. Ma, a metà di questo popoloso grigiore, oggi si apre uno squarcio: case ricche, alte, colorate come arlecchino, delle quali una è a punta come la prua di una nave, in un quadrilatero di strade in cui una volta si trovava il malinconico edificio dell’industria chimica Carlo Erba.
Abbattuta la fabbrica, è rimasta solo una ciminiera di 50 metri, in un angusto spiazzo su cui si affaccia un volgare edificio a forma di scatola da scarpe. È un centro fitness internazionale, non ha finestre ma oblò giganteschi, che mostrano sale illuminate giorno e notte con i salutisti in maglietta o a torso nudo che fanno ginnastica. Sembra di essere a Cesenatico.
Intorno alla ciminiera, ormai chiamata «la torre», c’è sempre un gruppetto di persone: cinesi, sudamericani, nordafricani, perché su un terrazzino a 43 metri, il 5 novembre si sono accampati alcuni immigrati loro connazionali, un egiziano, un argentino, un marocchino. Hanno protestato fin che hanno potuto per far sentire agli italiani la loro miseria di fuggiaschi, lavoratori in nero, clandestini ormai senza patria e in cerca di un futuro che gli scappa da tutte le parti. Questa è l’industriosa Milano capitale morale dell’Italia contemporanea.
Nel pomeriggio dell’ultimo sabato di novembre sono andato a vedere anch’io, pensando di trovare giornalisti e teleoperatori, forse qualche religioso: nessuno. Due giovanotti con una telecamera (ma tenuti rigorosamente fuori dello sbarramento della polizia), che, mi hanno detto, lavoravano per conto di un’agenzia, che a sua volta vende filmati alla 7. Faceva freddo, ha cominciato a piovere e nevicare a piccoli vortici. Sotto la ciminiera si trovavano sì e no cento persone, una decina gli italiani, a parte gli agenti tutti imbacuccati con i loro automezzi e i vigili del fuoco con casacche arancione ed elmetti rossi, due autopompe, un’ambulanza, un’autogrù con la ripida scala alzata fino alla cima, e una fotoelettrica che ha illuminato i protestari appena è calato il buio.
Poiché l’egiziano si è sentito male, un monta carichi è andato su e giù per qualche ora, fin che un medico di Emergency è riuscito a convincerlo a scendere e a farsi ricoverare in ospedale. Dopo ventiquattr’ore, il giovanotto è scomparso sebbene fosse sotto sorveglianza. E cos’è successo? Dicono i mass media: è stato denunciato il medico che l’ha curato.
Era sera quando ho lasciato via Imbonati, io ero gelido, immagino quei poveretti lassù. Mi sono guardato intorno nella strada: alcuni phone center, una sala per le assemblee dei Testimoni di Geova, vari money transfer, trattorie e bar con nomi italiani e non, ma con personale indiscutibilmente sudamericano, africano e asiatico. Un palazzo per ricchi con molti vendesi e affittasi. Le bariste cinesi guardavano lo «spettacolo» attraverso i vetri. Un beauty center con massaggi thailandesi esponeva il suo tariffario ben leggibile. Su un negozio di elettrodomestici una scritta a caratteri cubitali: «Si vende a rate anche a stranieri». Non gliene importava niente a nessuno.
Gli immigrati saliti sulla «torre» a rischiare la pelle o almeno la polmonite hanno sbagliato tutto . Qui gli italiani non ci sono, se ci sono alla sera guardano la tv, sabato e domenica lo sport (c’era per la verità un pensionato dai capelli bianchi con un clarinetto, che ha aspettava altri suonatori per un concertino di sostegno, ma il freddo li ha tenuti lontani).
Dovevano salire su una guglia del duomo, per il restauro del quale sono stati stanziati 4,4 milioni di euro. Si sarebbero sentiti ricchi anche loro. Tutti li avrebbero guardati, filmati e fotografati: frotte di turisti americani, spagnoli, giapponesi, tedeschi. Un tripudio mondiale, degno della lettera natalizia del cardinale dedicata proprio a loro, agli immigrati. E poi sarebbero stati vicini alla statua d’oro, la Madonnina, che è poi Maria di Nazareth, una ebrea palestinese. Immigrata, anche lei. E, per di più, donna e madre.
Mario Pancera, giornalista e scrittore. Tra i suoi libri, una testimonianza diretta e affascinante su Don Mazzolari, parroco dalla parte dei contadini diseredati: “Primo Mazzolari e Adesso: 1959- 1961” ('Adesso' era il giornale che Mazzolari pubblicava). Ultimo lavoro di Pancera “Le donne di Marx”, edizioni Rubettino