Adesso che se ne è andato milioni di egiziani sparsi nel mondo e milioni di arabi attorno alle moscheee hanno voglia di scherzare sul passato che era terribile fino a quindici giorni fa quando Ben Ali e Mubarak erano i padrono medioevali di Tunisia ed Egitto protetti dalla democrazia presa d’esempio da tutti noi. Come verrà ricordato? Cosa significa “Mubarak”? Se inteso come verbo: incollare qualcosa. Esempio: “Ti picchio e ti Mubarak al muro” o “Puoi Mubarak tenere assieme i pezzi”. Se inteso come aggettivo: lento nell’imparare o nel comprendere. Esempio: “Perché sei così Mubarak?” Se lo consideriamo un nome: ex psicotico che non si capacita del fatto che sia finita”. Sono giochi di parole di un dottorando palestinese in scienze politiche a Londra, gioiosamente distratto dalla rivoluzione egiziana.
Bende per gli occhi e ossessiva speranza
Benvenuti al mulinello delle manipolazioni. All’interno della più antica nazione del mondo, il regime ha cercato di censurare la diretta da Tahrir Square: non c’è riuscito. Per i dimostranti, “democrazia” è sinonimo di laicità e di libertà di culto. Visto che la polizia ha travolto i dimostranti persino quando pregavano, ora un cordone di egiziani cristiani protegge l’intimità della preghiera musulmana (foto di Nevine Zak da Twitter).
Al contempo, domenica si celebrano le messe cristiane, protette dai musulmani. Per non parlare delle nozze, con auguri ecumenici. Una dimostrazione di civiltà straordinaria. Non ci avevamo venduto una sorta di guerra fredda interreligiosa in Egitto? Questa rivoluzione ha sostituito nell’immaginario della nostra generazione le gesta dei barbudos di Cuba. All’esterno delle pareti della prigione-Egitto, sono state attuate due strategie per bendarci gli occhi (leggi: delegittimare le proteste): l’opzione attendista di “wait and see”, da parte dell’amministrazione Obama, perché chissà, non si può sapere a cosa porterà un movimento pluralista, laico e democratico che si oppone ad una dittatura. E le profezie apocalittiche di “adesso si istaura una teocrazia in Egitto!”, spiegate dall’esperto in pace e risoluzione di conflitti, il primo ministro israeliano Netanyahu. Nel teatro in cui nessuno degli attori vuole cambiare sceneggiatura, Tahrir Square, come dotata di una luce a sè, ha continuato a pulsare una ossessiva speranza per chi non fa parte del potere delle armi nè di quello delle finanze incravattate (leggi: diplomazia).
Botox politico per la Famiglia Mubarak-Addams
Ed ecco che il 10 febbraio, Mubarak beve del suo botox e con la lingua rifatta, prova a dire in un comunicato televisivo che – due punti. Lui è il grande padre di 80 milioni di persone – ha servito il paese per 60 anni – ha difeso la patria dai nemici, piantando la bandiera nel Sinai – sa ascoltare le legittime richieste dei figli e delle figlie -sa anche chiedere vagamente scusa per i problemi di ordine pubblico esplosi chissà perché nelle ultime due settimane. I giovani di Tahrir Square mostrano le scarpe (terribile insulto nel mondo arabo) allo schermo col dittatore di pongo. Agitando le bandiere egiziane, e le proprie urla (erjal, erjal, Hosni Mubarak!) con avvilimento.
Il gioco delle alleanze incrociate ha dinamiche imprevedibili, ma già il 29 gennaio, il “The Times” e “Elaph” riportano che il governo saudita non è contento delle pressioni esercitate dagli Stati Uniti su Mubarak, che non permetterà che lui abbandoni in modo umiliante il paese. E che se Washington mette in forse gli aiuti finanziari al regime, nessun problema: l’Arabia Saudita stessa pagherà a Mubarak $1.5 miliardi all’anno, per l’agghiacciante “stabilità”. Il re Abdullah è lo zio Fester. Per Mubarak, pecunia non olet, fa un po’ lo stesso chi sgancia le banconote. Come se non ne avesse abbastanza. Secondo “The Guardian”, la fortuna della famiglia potrebbe essere di circa $70 miliardi, con investimenti immobiliari a Londra, New York, Los Angeles, e nella costa del Mar Rosso (prima tappa della sua fuga, dopo la capitolazione), oltre che in Germania. Il giornale arabo al-Khabar annota altre proprietà a Manhattan e Beverly Hills. Trent’anni come presidente, accesso privilegiato agli accordi di investimenti, e tanta tanta pazienza nel risparmio. Una formichina.
Poi c’è la moglie, Suzanne Mubarak-Morticia, conosciuta in Egitto come Maria Antonietta. Camaleonte del potere. Sia nella piattaforma innocua pace-bambini-donne-pace fatto su misura per le first ladies. Fondatrice del International Movement of Women for Peace, donna-immagine contro le mutilazioni genitali femminili, contro il traffico di esseri umani. È attivista contro tutto meno che contro l’arricchimento illecito. Il matrimonio l’ha ingozzata di 1 miliardo di dollari, accreditati in banche statunitensi, secondo il canale internazionale Watchnews e i giornali del Wafd party. Suzanne sfoggia il sorriso morbido e la pettinatura composta, con innegabile eleganza, per sostenere tutte le buone cause che strappano applausi nei galà della comunità internazionale.
Dopo che le luci dei riflettori si sono spente, riprende a tessere le trame del vero potere, quello dell’immortalità. Come Cleopatra, pianifica il mantenimento dell’impero in famiglia. Wikileaks rivela che Suzanne avrebbe convinto il marito a preparare il figlio, Gamal-Pugsley, a ereditare il regime. Pertanto, ha premuto affinché nessun vicepresidente venisse designato, perché sarebbe stato visto come un candidato alla presidenza. Aveva tanto piacere che gli egiziani, visti dalla famiglia Mubarak come “figli”, continuassero a giocare con le versioni horror di Barbie e Ken: Suzanne e Hosni. Invece no: Mubarak ha nominato vicepresidente uno che di certo se ne intende di Stato di Diritto, dialogo con le opposizioni, transizione democratica, rispetto dei diritti umani: Omar Suleiman, il capo dei servizi segreti, cioè di uno degli apparati di repressione più efficienti della dittatura. Reincarnazione del maggiordomo Lurch della Casa Addams, con il carisma di una carota, promette bene quando improvvisa nel suo comunicato televisivo un generico: “teniamoci insieme e guardiamo al futuro”. We are the world, we are the children.
Ma tanto lo sappiamo, che la famiglia intera fuggirà come un branco di iene nella notte senza luna.
Le proteste in Egitto non mirano solamente alla caduta del dittatore, ma alla caduta della dittatura: di tutto il sistema familiare, oligarchico e clientelare che ha eretto la prigione per gli egiziani. Chi appoggia ancora Mubarak in Egitto? Secondo l’analisi del politologo palestinese Azmi Beshara, due tipi di persone. I suoi dipendenti: le élites, i businnessmen, i membri dell’apparato di sicurezza, i lavoratori pubblici. E gli animali che non hanno ancora capito. Sì, al di là del sarcasmo, potremmo ricordare i cammelli e cavalli egiziani che hanno galoppato contro i manifestanti pro-democrazia, sperando di ferirli a morte. I cammellieri vivono del turismo e forse non hanno una altissima preparazione accademica per comprendere le cause di questa crisi nazionale. Gli omoni di Mubarak hanno spiegato loro all’orecchio l’abc della propaganda ufficiale: i protestanti antiMubarak vogliono allontanare i turisti. E´ingiusto, impoveriscono te. E così i cammellieri hanno ululato la loro rabbia a chi fa scappare le colombe con la protezione solare +50, via via dalle piramidi. Può sorprendere la “primitività” della scena, ma secondo Beshara, questo è il modo in cui il regime ha governato da 30 anni. Poveri sparati contro altri poveri.
Tutte le generazioni
Lo scrittore Alaa Al Aswany, autore di “Palazzo Yacoubian”, si è unito alle proteste in Piazza Tahrir a Il Cairo. In un recente articolo su “El Paìs”, narra che un giovane manifestante stava scappando dalla polizia martedì scorso. Entrato in un edificio, suonò campanelli a caso. Erano le quattro del mattino, e un signore anziano anni, spaventato, gli aprì la porta. Il giovane gli mostrò la carta di identità e chiese di essere nascosto dalla polizia. L’uomo gli offrì ospitalità, cibo e tè. Parlarono come vecchi amici. Magari quest’uomo era uno dei lavoratori pubblici, a cui è stato dato l’ordine di non protestare pena la ritenzione del salario. Al mattino, l’uomo lo accompagnò a prendere un taxi. Il giovane lo ringraziò. Abbracciandolo, l’uomo gli disse “sono io che devo ringraziare te, per difendere me, le mie figlie e tutti gli egiziani”. Ogni generazione in Egitto è in prima linea per difendere questo cuore neonato che pulsa speranza.
Specialista in cooperazione internazionale. Autrice di "Romanzo di frontiera" (Albatros, Roma 2011), magia e realtá delle donne latinoamericane alla frontiera Messico-USA; "In Amazzonia" (Milano, Feltrinelli, 2006); "La Ternura y el Poder" (Quito, Abya Yala, 2006); "Una canoa sul rio delle Amazzoni: conflitti, etnosviluppo e globalizzazione nell'Amazzonia peruviana" (Gabrielli Editore, Verona, 2002); co-autrice di "Prove di futuro" (Migrantes, Vicenza, 2010).