Per andare avanti nell’attuazione della legge 42 (cosiddetto “federalismo fiscale”) ci vogliono serenità, equilibrio e saggezza, il contrario della fretta e del nervosismo che in questi giorni contraddistinguono l’azione del governo e della Lega. Fermarsi e riflettere, utilizzando in modo appropriato le sedi istituzionali, come la bicamerale: a questo non c’è alternativa, pena il deragliamento del treno federalista. Il tentativo del governo di forzare l’approvazione del decreto sulla finanza comunale, e l’ineccepibile stop del Quirinale, hanno fatto concentrare l’attenzione sulle questioni politiche e procedurali.
Si è perso di vista il merito: ma è sul merito del decreto che il Pd e le altre opposizioni hanno una posizione fortemente contraria. Si tratta infatti di una riforma distorta, che priva i Comuni di una vera autonomia impositiva, promette aumenti di tassazione sul lavoro (addizionali Irpef) e sull’impresa (super- Ici quasi raddoppiata), non ha sufficienti coperture finanziarie sul capitolo della cosiddetta “cedolare secca”.
Il governo, la maggioranza e perfino lo stesso presidente della Commissione bicamerale hanno poi messo in dubbio l’effettiva rappresentatività di quest’ultima, e perciò stesso la sua legittimità. Si tratta di un’azione molto grave: questi dubbi vanno sciolti urgentemente, per restituire certezza al lavoro parlamentare. In effetti, la Commissione bicamerale che filtra i testi dei decreti proposti dal governo è stata finora una sede vera di discussione e, laddove possibile, di condivisione.
Ne va dato atto al ministro Calderoli, che ha fatto di tutto per evitare che questa riforma facesse la fine della “devolution”, e sul fisco comunale è caduto non per sua colpa ma per conseguenza del veto politico di Berlusconi a qualsiasi cosa che potesse far pensare a una reintroduzione dell’Ici sulla prima casa. Tutti i decreti finora passati al vaglio della commissione, compreso quello sul fisco comunale, sono stati profondamente modificati dal parlamento. E il Pd, dopo essersi confrontato a partire dalle proprie proposte, ha sempre scelto il suo atteggiamento di voto sulla base di una valutazione di merito, e non pregiudiziale. Ci siamo astenuti sul decreto relativo al trasferimento del patrimonio – dopo aver contribuito a migliorarlo notevolmente, ivi compresa la difesa dei parchi naturali e nuove rigide regole sui processi di alienazione – perché alla fine il perimetro del patrimonio effettivamente trasferito è molto ridotto, a causa dell’assenza dei beni della difesa. Abbiamo votato a favore del decreto su Roma Capitale, anche in questo caso dopo averlo migliorato.
Abbiamo votato contro il decreto sui fabbisogni standard di comuni e province perché, nonostante le modifiche apportate, è restato sganciato dalla definizione, per noi ineludibile, dei livelli essenziali delle prestazioni. Anche il decreto sulle regioni va, a nostro parere, profondamente migliorato.
Il testo proposto dal governo non tiene conto del legame fra livelli essenziali delle prestazioni e fabbisogni standard nei servizi costituzionalmente garantiti erogati dalle regioni. Non solo sanità, ma anche assistenza, istruzione e trasporto pubblico locale, dove il governo non ha fatto nessun passo avanti per la definizione del “l.e.p.”, in assenza dei quali è impossibile distinguere la spesa regionale, e i relativi trasferimenti, che andranno finanziati con il metodo dei fabbisogni standard e quelli invece che andranno finanziati con il metodo delle capacità fiscali.
Sui costi standard della sanità il testo non contiene alcuna innovazione: come lo struzzo, il governo ha messo la testa sottoterra e ha lasciato le regioni a litigare fra di loro per il riparto del fondo nazionale. Eppure, se si volesse davvero fare una “grande riforma”, sarebbe ora di verificare con metodologie condivise i criteri storici di riparto, con riferimento sia alla popolazione anziana sia agli indicatori di disagio sociale.
Solleva dubbi anche l’architettura della nuova Irpef regionale. L’addizionale regionale Irpef si sovrappone a quella comunale (sbloccata) e non promette niente di buono per i contribuenti, soprattutto lavoro dipendente e pensioni. Non a caso, il PD propone l’abolizione dell’addizionale comunale. Emerge poi il rischio di un’Irpef “arlecchino” fra le diverse Regioni, con un rientro dalla finestra di quelle “riserva di aliquota” che il Parlamento aveva fatto uscire dalla porta durante il percorso di approvazione della legge 42.
È vero che questo decreto ha avuto l’intesa della Conferenza Stato-Regioni, ma è probabile che al momento dell’intesa le Regioni del Sud dormissero profondamente. Non ha tutti i torti chi, guardando al decreto da sud, paventa numerosi rischi. Che vanno, con equilibrio, eliminati attraverso un confronto di merito. Chi pensa, di fronte a questioni di tale portata, soltanto all’accelerazione del processo è il vero nemico dell’attuazione della legge 42.
(Analisi ripresa da Europa Quotidiano)
Marco Causi (Palermo, 1956), deputato Pd, ex assessore al bilancio a Roma (giunta Veltroni), attualmente è nel consiglio scientifico della Fondazione Ifel (Istituto per la finanza e l'economia locale dell'Anci). Docente di microeconomia all'Università Roma Tre, è figlio di Marina Marconi Causi, protagonista delle battaglie degli anni '70 per i diritti delle donne, promotrice della riforma sanitaria in Sicilia, deputato regionale eletta come indipendente nelle liste del Pci, assessore del Comune di Palermo negli anni '80 nella giunta della Primavera.