Il sistema di potere politico – mafioso che aveva gestito il “sacco di Palermo” ed il flusso di investimenti destinati agli appalti pubblici, nel corso degli anni settanta, ebbe modo di crescere, di consolidarsi e di espandersi anche nel centro nord, stabilendo, anche, intensi e proficui rapporti con la mafia americana per la gestione internazionale del narcotraffico. In “Cosa nostra” si produsse una vera e propria metamorfosi in quanto essa abbandonò la struttura “orizzontale” che garantiva ampie autonomie alle “famiglie” sui territori e nelle arre di rispettiva competenza e si strutturò “verticalmente”, assegnando alla “Cupola” la programmazione strategica, i modi per conseguire gli obiettivi, le alleanze da “curare”, i nemici da “abbattere”.
Si pervenne, così, ad una strettissima e solidale integrazione tra Cupola mafiosa, politica nella persona del suo massimo rappresentante Giulio Andreotti, con il contributo essenziale ed operativo della massoneria e di Licio Gelli, in particolare. Il costituirsi ed il consolidarsi del rapporto triangolare tra mafia, politica e massoneria causò effetti devastanti nella società e nella politica in Sicilia, perché soffocò ogni possibilità di opposizione democratica al sistema corrotto, clientelare, tangentizio cui, in un modo o nell’altro partecipavano tutti i partiti, pezzi della burocrazia, dell’amministrazione, della magistratura, delle forze dell’ordine, della chiesa.
Il collante che riuniva tutti i componenti di tale congrega era e restava l’anticomunismo non solo in Sicilia, ma anche a livello nazionale ed internazionale: ancora il muro di Berlino non era venuto giù e l’Italia e la Sicilia erano aree estremamente decisive, delicate, assolutamente da non perdere, da non mollare e allora mafia, massoneria, Vaticano e rigurgiti reazionari risultarono perfettamente funzionali.
Gli anni ’60 e il fallimento del presidente della regione Giuseppe D’Angelo
Monarchici e fascisti nostalgici, mafiosi e massoni, comunisti e capitalisti, ciascuno con un proprio ruolo e copione, avevano rappresentato nel teatro della politica l'”operazione Sicilia” con tutto il suo tragico squallore e non fu facile, per così dire, rimettere tutto a posto. Ci si ricordò, allora, che la DC era un partito anticomunista e che una protesta, anche se solo morale, contro la mafia poteva essere opportuna ed utile per rifarsi un’immagine di pulizia e di legalità, per rifarsi “il trucco”, insomma.
Ecco, allora, il buon Giuseppe D’Angelo da Calascibetta, avversario di Milazzo, dei cugini Nino ed Ignazio Salvo, del trio fanfaniano Lima – Gioia Ciancimino.
Nel 1962 fu eletto Presidente della Regione con i voti dei socialisti guidati da Salvatore Lauricella, anche lui avversario di Silvio Milazzo. Il buon D’Angelo pensava che la mafia si sarebbe potuta vincere con le buone intenzioni ed azioni di amministratori e politici onesti, con il coinvolgimento morale dell’opinione pubblica, non capì, insomma, che per liberarsi della mafia, doveva liberarsi della sua stessa DC. Il suo astratto moralismo contro la mafia valeva come l’aspirina contro il cancro, cioè nulla.
Il buon D’Angelo era anche un tenace ed irriducibile anticomunista e ciò gli impedì di andare oltre i socialisti, di cercare nelle masse popolari consensi e sponde nella lotta contro la mafia. Non si poteva essere, contemporaneamente, antimafiosi ed anticomunisti, ciò serviva solo a produrre contro di lui un’opposizione mafiosa ed una comunista. L’alleanza con i socialisti gli procurò, infine, l’opposizione delle destre ostili al centrosinistra.
Stretto in un angolo dalle opposizioni ed isolato nel suo stesso partito, riuscì, comunque, a far votare, all’unanimità, dall’ARS una mozione per chiedere l’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia. Erano ancora in molti a dire che la mafia era un’invenzione dei comunisti per denigrare la Sicilia e fu così che il buon Giuseppe D’Angelo da Calascibetta non fu neanche rieletto.
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Gli anni sessanta saranno pure rimasti, nell’immaginario collettivo dei ragazzi di allora, i “favolosi anni sessanta”, ma in Sicilia tanto “favolosi” non furono di certo per quei 624 mila siciliani che, tra il 1961 ed il 1971, lasciarono le loro case, la famiglia, il paese per andare a lavorare al Nord o in Germania o in Belgio o in Svizzera.
Già nel decennio precedente altri 386 mila siciliani avevano affollato le periferie delle città del Nord e allora si può dire che la Sicilia degli anni sessanta non era più la stessa perché ad essa mancarono un milione di abitanti, il 25% del totale. Fu la più radicale riforma sociale mai effettuata, una riforma “passiva”, si capisce bene, un “miracolo economico” a rovescio. Né furono “favolosi” dal punto di vista della qualità e dell’efficienza della classe politica di governo; dal settembre del 1961 al giugno del 1971 si susseguirono, infatti, ben 17 governi: sei guidati da D’Angelo, tre da Coniglio, uno da Giummarra che durò solo 40 giorni, due da Carollo e cinque da Fasino.
Nello stesso periodo la politica dovette gestire ben sei tornate elettorali, di cui tre regionali e tre nazionali e se si pensa che le crisi di governo e le campagne elettorali rallentano e, talvolta, bloccano l’attività politica, si capisce bene che per dieci anni mancò un’azione di governo che fosse effettiva, coerente ed efficace. Negli anni sessanta cessò il terrorismo mafioso contro i contadini anche perché il latifondo non esisteva più, i contadini se ne erano andati e gabelloti, campieri e sovrastanti si erano trasferiti in città nel nuovo ed attraente “affare” del cemento.
I poliziotti, tranne che ad Avola, non spararono più sugli scioperanti perché anche in Sicilia fu riconosciuto lo Statuto dei lavoratori. “Nella Sicilia degli anni sessanta tutto non era cambiato e non tutto era rimasto quello di prima” (Francesco Renda. Storia della Sicilia. Palermo. Sellerio. Vol. III. Pag. 473)
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Anche in Sicilia arrivarono gli effetti del “miracolo economico” veicolati dalle rimesse degli emigrati e prodotti dall’impetuoso sviluppo del “terziario” i cui addetti superarono quelli dell’industria e, ancor più, quelli dell’agricoltura. Arrivò il tempo delle “vacche grasse”, crebbero i consumi e la richiesta del diritto alla salute e al lavoro, ai miglioramenti salariali specie verso la fine degli anni sessanta, quando scoppiò, appunto, “l’autunno caldo”.
In tale fase espansiva dell’economia i governi nazionali e regionali di centro sinistra ritennero di assecondare tali richieste, arrivando, persino, con l’istituzione delle “Partecipazioni Statali”, a soccorrere le aziende pubbliche in crisi. Si innescò, così, un meccanismo perverso di crescita del debito pubblico, d’inflazione con conseguente diminuzione del potere d’acquisto.
Nella sostanza, lo Stato e la Regione, assunsero il ruolo come di una mucca che basta mungerla che offre, al momento, il latte che serve, ma che, nel medio e lungo termine, irrimediabilmente deperisce e, letteralmente, perde la bussola. Per mantenere i livelli di consumo e di spesa s’intraprese una politica d’incremento dei posti di lavoro per infrastrutture non sempre utili al territorio e quasi sempre lasciate incomplete o inutilizzate; aumentò, altresì, il numero delle pensioni di anzianità e di invalidità, queste ultime in gran parte fasulle.
In Sicilia, alla cattiva politica ed alla pessima economia si aggiunse il salto di qualità di Cosa Nostra, che si lanciò nel traffico internazionale della droga e delle armi, producendo ingenti capitali che furono massicciamente investiti in attività finanziarie e negli appalti pubblici. In Sicilia, dalla fine degli anni sessanta in poi, non fu praticamente possibile spendere una lira al di fuori della corruzione tangentizia e della mafia.
Elio Camilleri, professore al liceo scientifico Galilei di Catania. Autore di saggi e curatore di libri sulla mafia. Collabora al periodico Ucuntu.