di Raniero La Valle
È abbastanza frequente che editori della carta stampata chiudano i loro giornali. Anche a me è capitato quando dirigevo “L’Avvenire d’Italia”, e oggi si annuncia una vera e propria epidemia a causa della decisione del governo di togliere i fondi all’editoria giornalistica. Ma che chiuda Domani di Arcoiris Tv, che è un giornale on line, è una notizia …
di Maurizio Chierici
L’ironia di Jacques Prévert, poeta del surrealismo, versi e canzoni nei bistrot di Parigi, accompagna la decadenza della casa reale: Luigi Primo, Luigi Secondo, Luigi Terzo… Luigi XVI al quale la rivoluzione taglia la testa: “Che dinastia è mai questa se i sovrani non sanno contare fino a 17”. Un po’ la storia di Domani: non riesce a contare fino …
Libri e arte » Teatro »
di Raffaella Ilari
“Non si può bluffare se c’è una civiltà teatrale, ed il teatro è una grande forza civile, il teatro toglie la vigliaccheria del vivere, toglie la paura del diverso, dell’altro, dell’ignoto, della vita, della morte”. Parole di Leo …
Inchieste » Quali riforme? »
di Riccardo Lenzi
Il governo Monti ha perso il primo round con Susanna Camusso che fa la guardia alla civiltà del lavoro, fondamento dell’Europa Unita. Sono 10 anni che è morto Marco Biagi, giuslavorista ucciso dalle Br. Si sentiva minacciato, chiedeva la scorta: lo Scajola allora ministro ha commentato la sua morte, “era un rompicoglioni”. Rinasce l’odio di quei giorni? Risponde Cesare Melloni, …
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Libri e arte » Sarajevo »
Nostalgia di un paese che non c’è più. Sidran, drammaturgo, poeta, testimone dell’agonia di Sarajevo
04-07-2009
di
Piero Del Giudice
Oggi questa città non è meno peggio di altre città italiane o europee. Non sembra diversa, animata come è da una affannosa ricerca di ragioni per cui una quota di cittadini dovrebbe essere migliore o peggiore di un’altra.
E fuori da Sarajevo è peggio. Ci sono scuole che organizzano le lezioni così: al mattino i bambini bosniaci, al pomeriggio i bambini croati. E per quanto alla moneta di Stato che sarebbe il KM – l’incredibile marco convertibile -, a Mostar riva destra chiedono la moneta croata, la kuna.
A Milano o in altre città italiane, la Lega chiede scuole separate: extracomunitari da una parte, lombardi dall’altra. Così come chiede vagoni della metropolitana separati – qui si va sulla memoria pesante con “coincidenze” come quella che si specchia a pagina 368 di Romanzo balcanico: la foto di un tram a Belgrado nel 1941 (a invasione nazifascista avvenuta) con la scritta sulla fiancata “Für Juden Verboten”.
Non c’è più oggi una letteratura comune. Eppure era grande, con quei grandi narratori danubiani, dei grandi fiumi (Selimović, Andrić, Tišma, Kiš) che non erano comparabili, non avevano rivali possibili, nell’Europa stenta del “nouveau roman” e di L’anno scorso a Marienbad.
Si torcono le lingue e le anime. Si spostano i dittonghi e le vocali. Si stortano le chiese e le religioni negli estremismi.
A Sarajevo succedono poi cose come la devastazione dell’antico cimitero ebraico di qualche anno fa. E’ un cimitero in disuso l’antico cimitero ebraico di Sarajevo, appoggiato sulla “collina grassa”, prominenza del monte Trebević. E’ monumento patrimonio dell’umanità tutelato dall’Unesco. Qui riposano i resti delle prime famiglie sefardite cacciate dai re cattolici di Spagna, accolte anche a Sarajevo dall’impero ottomano. Parlavano ispanico, cantavano i romanceri giunti sino a noi, non vivevano in un ghetto. I resti dei sefarditi del XVI e XVII secolo sono sotto pesanti pietre dolmiche a forma di culla rovesciata. Quando l’erba è bassa la collina prende il profilo dalla successione di pietre antiche scolpite a arco. In età più recente ci hanno sepolto gli ebrei uccisi nella seconda guerra mondiale durante l’occupazione del governo fascista croato e dei tedeschi o hanno messo dei grandi cippi neri con i nomi, in memoria.
All’inizio dell’ultima Intifada in Palestina l’antico cimitero ebraico di Sarajevo è stato devastato da giovani estremisti islamici. Questo per dire la miseria culturale che si vive qui e le inestricabili misture e trame che bollono qui nella pentola dell’odio.
I sefardi che non hanno mai vissuto in un ghetto, a Sarajevo. Ustaša e tedeschi li hanno ridotti con le deportazioni e i genocidi a poche centinaia di persone da 21.000 che erano e nell’ultimo assedio dei nazionalisti serbi Elie Wiesel ne ha contrattato l’evacuazione (in chiave antimusulmana). Quelli rimasti sono bosniaci convinti e comunisti, è un ex-partigiano di 80 anni l’improvvisato rabbino.
Tutti in Jugoslavia avevano il passaporto e potevano andare nel mondo senza alcun visto salvo che in due paesi: la Spagna franchista e gli Stati Uniti.
Un grande paese, la Federazione Jugoslava, con una grande movimentazione di genti in uscita e in entrata (il turismo organizzato con serietà e rispetto dallo stato socialista).
Oggi il visto c’è anche per le stesse ex-repubbliche federate (la Slovenia) e oggi il turismo è quello senile che sciama a piccoli passi dai luoghi delle apparizioni mariane, da Međugorje, al Ponte Vecchio di Mostar. Cerchio perfetto dell’inganno: miniera d’oro Međugorje per frati, nazionalisti croati e imprenditori della paura, aperta negli anni Ottanta, in preparazione della guerra; del tutto nuovo il Ponte Vecchio abbattuto l’originale dai mortai ustaša nella guerra civile.
Una grande città Sarajevo con la sua proposta di vita comune tra culture e religioni diverse, con comunità assai poco autoreferenziali al punto che le coppie miste nei nuovi quartieri come quello dell’aeroporto – il martoriato Dobrinja – sfioravano il 40%. Anche Gerusalemme era così.
Abdulah Sidran della sua città dice: “L’insurrezione serbonazionalista, guidata da Radovan Karadžić, ha raggiunto alcuni degli obbiettivi strategici, altri no. Certamente è riuscita a distruggere quella che era la società bosniaca tradizionale. L’Austria-Ungheria nel 1910 – quando c’è stata l’annessione anche formale all’Austria, sino al 1908 c’era ancora la formale sovranità turca - fa il censimento e come deve uno stato moderno, nei suoi censimenti, domanda ai residenti anche “che lingua parli?”. Secondo quel censimento e quelle risposte la gente del posto parlava 48 lingue! Una vera e propria Torre di Babele! Le percentuali più basse riguardavano il turco e l’arabo. Una cultura e una pluralità che, in qualche modo, hanno continuato a vivere, sono rimaste vive in varie forme, sino al ’92… La guerra ha distrutto completamente l’intreccio interetnico, la convivenza, quella naturale. Ci sono dei gruppi che fanno eccezione. Eccezioni – l’intero è stato distrutto – ed è una tragedia senza fine”.
Viene in mente uno scrittore come Vasco Pratolini, aveva una scrittura limpida e un immaginario povero, eppure i suoi libri affascinavano ancora negli anni Cinquanta per la proposta di vita, la morale (fragile) che vi circolava.
La Jugoslavia spazio conteso e proprio per questo fragile.
Drammatica, ovvia nella sua plasticità, l’evidenza che in Jugoslavia non c’era la proprietà privata. Sogno fragile, ma la Jugoslavia era una gigantesca proprietà collettiva.
La ragione di fondo della guerra civile è stata l’assalto alla proprietà collettiva.
A fine guerra i gruppi che l’hanno provocata si sono spartiti i beni delle cooperative e dello Stato, dell’esercito e delle varie categorie del lavoro, hanno devastato il mercato immobiliare appropriandosi dei soldi della ricostruzione, hanno rastrellato i crediti dei combattenti (per pochi marchi) e con quella carta straccia a valore nominale hanno comperato gigantesche proprietà di Stato. Sono i guerrafondai che ora gestiscono le tante repubblichette.
Sidran, nelle presentazioni fatte in questi giorni di Romanzo balcanico con molta efficacia e semplicità diceva: “Assistiamo al ritorno di coloro che erano stati sconfitti nella seconda guerra mondiale. Gli stessi che per decenni avevano vissuto quasi in letargo, rintanati come orsi nelle caverne e che d’un tratto hanno scoperto di avere molta forza. Da qui alla guerra il passo è stato molto breve e anni di propaganda attraverso i media sono riusciti a far riaffiorare l’odio fra le varie etnìe.”
Prima lo Stato provvedeva ai bisogni primari, era stata portata a termine una grande riforma della scuola che investiva sul progetto di mobilità europea dei giovani e sul loro ritorno da anziani. Oggi i flussi migratori sono definitivi. E’ la diaspora. I Balcani si stanno impoverendo di tutto, soprattutto di giovani. Chi rimane vive in sostanza delle rimesse degli emigrati.
Nell’assedio, sotto le granate e nella indigenza della città-ghetto, i musulmani di Sarajevo andavano nelle chiese dei cattolici di Sarajevo per Božić, Natale (le fredde chiese cattoliche e semibuie nelle nevi dell’assedio).
Marko Vešović, lo scrittore serbo-montenegrino, era una specie di eroe virile, così come il generale Jovan Divjak – nell’assedio. E le belle architette serbe e le belle studentesse dalmate di medicina, si sedevano ancora, nella primavera del 1992 – tra gli alberi e i vecchi nišan delle tombe tra Settecento e Ottocento musulmane nel gradski park, di fronte al monte Trebević – e guardavano a lungo il tempo dell’inizio della fine, la lenta agonia della città pluriculturale assediata, sotto il tiro dei cecchini e dei mortai.
Romanzo balcanico è stato scritto, strutturato e costruito, per chi – meno giovane e giovane – [come Karim Zaimović (aveva 22 anni quando – nell’ultima stagione di guerra – nell’agosto del 1995 una scheggia di granata l’ha colpito alla testa sulla via Kranjčevićeva; aveva scritto un libro di racconti dal titolo Il segreto della marmellata di lamponi della nonna. Karim, speranza laica della città)] è caduto in difesa della Sarajevo plurale e diversa.
Ma anche della Jugoslavia plurale e diversa voluta da Tito con quella geniale strategia vittoriosa nella Resistenza che sempre ha perseguito l’unità dei diversi ed è questa l’idea di fondo della fondazione del Paese, la Federazione dei popoli a fine novembre 1943.
Fu la grandezza dei padri. Per questo si sono battuti e sono morti. Stiamo sulle loro spalle, gesticoliamo con nelle mani le loro Costituzioni e ci sentiamo vivi eredi della loro convinzione che sia possibile una umanità migliorata, un consorzio umano che invece di dedicare l’intera vita e le proprie energie alla roba e al conflitto per la roba, possa organizzare in modo sufficientemente felice la propria unica vita, in un ambiente e in una natura sufficientemente rispettati, in una vita comune sufficientemente rispettosa di ognuno – del suo corpo, della sua sessualità e della sua cultura – con una spartizione equa dei beni comuni per un comune benessere.
Ma è tornata, senza vergogna e senza apparente oltraggio, la diffusione – non solo nella Jugoslavia demolita – di un organico pacchetto di idee, di quella sovrastruttura per cui si annuncia – ogni giorno di più – una soluzione elitaria della crisi, una fuoriuscita per pochi gruppi sociali proprietari che governino e spremano le energie del mondo, sulla base di una indotta divisione e contrapposizione (etnica, razziale, religiosa, culturale) delle moltitudini degli oppressi e sfruttati.
Piero Del Giudice, giornalista e scrittore, inviato a Sarajevo durante l'assedio della città, è autore di articoli, libri, saggi, documentari televisivi sulla ex-Jugoslavia ("Sarajevo!" edizioni del Gottardo, Lugano; "Romanzo balcanico", Aliberti editore, Roma). Del Giudice lo fa a partire da "Sarajevo mon amour", il libro-intervista di Jovan Divjak edito di recente in italiano (Infinito edizioni, Roma).
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