Ciò che appare sulla stampa su operazioni governative non conformi alle buone regole di bilancio, come l’attingere la somma di trecento milioni di euro dal capitolo dei versamenti di competenza del TFR (acronimo di “Trattamento di Fine Rapporto”), desta sempre il dubbio che, nell’irregolarità contabile, non debba necessariamente allignare, nella sostanza, una violazione di legge.
La contabilità pubblica è infatti, per i non addetti ai lavori, un enigma dal punto di vista del loro immediato significato amministrativo e non dobbiamo tacere che tutto l’insieme del bilancio dello stato e degli enti locali non risponde, né ora né nel passato, allo scopo primario di essere lo specchio autentico degli atti di chi è preposto al governo. Crediamo a questo proposito che proprio partendo dalla circostanza del TFR e dalle più circostanziate analisi critiche espresse in questi giorni, scaturisce una esigenza di cui, almeno in sede europea, si è perfettamente consci.
Pur senza clamore, si delinea infatti l’esigenza di pervenire ad una maggiore trasparenza dei conti pubblici e, conseguentemente, ad una maggiore comparabilità dei bilanci degli stati europei, concisamente riconducibile alla necessità di superare il sistema della contabilità di cassa e pervenire a quello della competenza. Dissertare invece più propriamente sull’istituto contrattuale del Trattamento di Fine Rapporto e derivarne una specificità soprattutto italiana, può condurre a varie considerazioni.
Nella sostanza notoriamente è una condizione caratteristica della stragrande maggioranza dei contratti collettivi dei dipendenti pubblici e privati italiani. Con essa si stabilisce che la retribuzione annuale complessiva annuale di ogni dipendente non costituisce la somma lorda complessiva che il dipendente percepisce effettivamente durante l’arco dell’anno. Infatti una quota di tale importo, generalmente pari a una mensilità di quelle effettivamente corrisposte, pur essendo di proprietà del lavoratore, di fatto gli verrà corrisposta con complicate modalità di calcolo, al momento della cessazione del rapporto di lavoro.
L’indubbia importanza di questo istituto risiede originalmente nella apprezzabile ispirazione sociale di conferire al lavoratore un risparmio forzoso per il momento in cui, o per volontà propria o per iniziativa del datore di lavoro, deve affrontare, professionalmente, un diverso e spesso più difficile percorso di vita.
Tale condizione contrattuale trovò, fin dalla sua istituzione, anni ’30 circa del secolo scorso, una motivazione non genuinamente esemplare in quanto, per condizioni di difficoltà finanziaria, il mondo imprenditoriale riuscì ad ottenere una attenuazione momentanea delle proprie esigenze gestionali di cassa.
Si stabilirono leggi (molto parzialmente applicate e poi cadute in desuetudine) che imponevano tuttavia ai datori di lavoro di versare il corrispondente ammontar di denaro del salario o stipendio differito in titoli di stato, a garanzia della loro disponibilità al momento della cessazione del rapporto di lavoro con i propri dipendenti.
Con la Repubblica l’istituto ebbe una sempre più ampia e quasi generalizzata diffusione: i fondi (o accantonamenti) di liquidazione del personale, divennero, nei bilanci delle imprese, vere e proprie forme di autofinanziamento della gestione senza oneri di interessi e, nel contempo, voci contabili ma legittime di detraibilità fiscale.
Da circa due lustri tuttavia sono emerse condizioni contrattuali che prevedono diritto di opzione dei lavoratori che prevedono dirottamenti di tali mensilità differite a fondi di gestione diverse dall’impresa, che, statisticamente non sembrano finora aver trovato pratica applicazione e nemmeno espresso teorico consenso, da parte lavoratrice e dalle stesse rappresentanze sindacali.
In ordine alle quali, in modo collaterale ma non improprio, sottolineare come proprio l’istituto del Tfr (o meglio definibili, con denominazione storica, dei “Fondi di liquidazione del personale”) rimanga tuttora un rilevante argomento aggiuntivo al diritto dei lavoratori di partecipare alla gestione dell’impresa da cui deducono la propria autonomia di sopravvivenza
Considerando preliminarmente lavoro e capitale come essenziali fattori di impresa, diventa assurdo declassare il primo di essi come inammissibile alle responsabilità di gestione anche nella sua veste aggiuntiva di fornitore di capitale pari a circa un dodicesimo del costo annuale del lavoro.
Pierluigi Sorti, 76 anni, economista, studi all'estero. Dirigente d'azienda e docente esterno universitario in materie aziendali, per circa dieci anni, a Napoli, Urbino e Roma. Promotore di iniziative di carattere sociale, ha collaborato per tre anni, fino alla chiusura, con la rivista socialdemocratica "Ragionamenti". Socialista in gioventù, oggi è un militante PD, già iscritto ai DS dal congresso fondativo (Firenze 1998). Alle “primarie” del 25 ottobre 2009 non ha sostenuto nessuno dei tre candidati alla segreteria del PD.