Tempo fa, si parlava con un caro amico siriano dei vari tabù alla satira nelle nostre società. Raccontavo che, da molti decenni in Italia la triade conservatrice “Dio, Patria, Famiglia” si sta sfasciando dalle risate, incapace di reggersi ideologicamente in piedi. Lui mi rispondeva: “Anche da noi, in Siria, si può scherzare su tutto: perfino sulla Madre, sulla Sorella e su Dio. Ma non sul Presidente”. E se uno non parlasse di politica, ma schernisse il suo look, magari? Diventava dannatamente serio: “Nemmeno. No”.
Due anni fa, il mio amico scagionava l’autoritarismo di Al-Assad perché convinto che in politica estera il regime avesse garantito l’impermeabilizzazione del paese all’influenza di Stati Uniti e Israele. Da sette settimane, la sua parziale lealtà subisce un black-out. Il presidente della Siria, Bashar al-Assad, assomiglia ad un Fabio Fazio con i baffi. Ma sul campo non ha, diciamo, gli stessi modi vellutati del conduttore di “Che tempo che fa”. Ricorda anche il principe Felipe di Spagna, nel suo essere alto al punto di oscillare. Ma fra le sue funzioni non si annovera la consegna di premi per i diritti umani come il “Bartolomè de Las Casas”. Da varie settimane questo ex-dentista inquadrato e composto, destinato al potere per questioni genetiche, ha preso le sembianze di Gozilla per le strade di Damasco, Homs, Deraa, frantumando le vite dei dimostranti (si parla di oltre ottocento) e imprigionando migliaia di dissidenti. Cosa chiedono questi morti ammazzati e questi prigionieri? Elezioni libere.
I giornalisti stranieri sono rispediti a casa come pacchi sospetti. E in ogni caso, nella maggior parte dei mass-media, volenti o nolenti, non trovano le parole per il caso siriano. Quando questo succede, si innesca deliberatamente la sindrome irachena, per la quale un conflitto viene narrato come un conteggio di morti, senza decifrare cause e spirali delle violenze. Il regime siriano ha seminato ambiguità, e ambiguità sta raccogliendo, per sua fortuna. Come sostiene “El Paìs”, esso assomiglia alle grandi banche statunitensi durante la recente crisi finanziaria: è in bancarotta ed è in mano a delinquenti, ma lasciarlo cadere potrebbe portare ad un collasso del sistema. A ripercussioni sia sui paesi vicini, sia su tutto l’assetto geopolitico medio-orientale.
Nel 2000, Bashar al-Assad ha ereditato il potere assoluto sulla Siria dal padre Hafez. L’oligarchia siriana conformata dal partito Baath (al potere, come partito unico, dal 1963), le Forze Armate e l’apparato burocratico puntarono su di lui per proteggere i propri privilegi. Il giovane Bashar inizialmente sedusse vicini e lontani durante la breve “primavera siriana”, liberando prigionieri politici e timidamente aprendo il regime alle richieste di pluralismo politico, la fine dello stato di emergenza e delle leggi marziali.
Ma nel post-2001, il discorso incendiario di Bush figlio. annoverò fra i componenti dell’Asse del Male (possibili obiettivi di “guerre preventive”), anche la Siria. Il regime si sentì minacciato e si chiuse a riccio, imbavagliando qualsiasi dissidenza tramite i terribili servizi segreti mujabarat. In retrospettiva, si può pensare che Bashar al-Assad apprezzi il cambio ma un pochino di più lo status quo: ha il vizietto di proporre riforme per poi negarle. In fondo, fa tutto lui, assieme ai compagni di bolla del potere. Fa pensare al “Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: a quel Principe di Salina secondo il quale la chiave è “bisogna cambiare tutto per non cambiare nulla”.
Ignacio àlvarez-Ossorio, professore di Studi Arabi e Islamici presso l’Università di Alicante e autore di “Siria contemporanea” (Sìntesis, 2009), sostiene che i due principali successi di Bashar sono stati la modernizzazione dell’amministrazione pubblica e l’apertura economica. Certo, è tutto relativo. Secondo Transparency International, la Siria figura fra i paesi più corrotti del mondo – sinonimo di una ricchezza monopolizzata dai privilegiati del regime, e di una disoccupazione superiore al 20%. Un analista mi spiegava che “conviene smettere di sopravvalutare categorie astratte e occidentali come “nazione”, “partito”, “religione”: in Medio Oriente il potere reale si basa su famiglia-tribù/clan-setta”. A sostegno di questa prospettiva, il principale beneficiario delle riforme di Bashar è stato il cerchio clanico-familiare. Anche in Siria hanno ben presente cosa significa il “conflitto di interessi senza conflitto”. Per esempio, il cugino Rami Majluf dirige la holding Chan e Siryatel, assieme a interessi immobiliari e buona fetta del settore trasporti.
Governare la Siria nello stile totalitario del partito Baath è un equilibrismo a metà fra arte e scienza. La responsabilità di mantenere un bilanciamento fra i basic needs della sopravvivenza della sua classe dirigente, le solidarietà delle alleanze internazionali (mutevoli, come la primavera), gli indici puntati contro i nemici esterni (necessari per giustificare la mano dura all’interno del paese). Fu così sin dall’inizio. Il padre di Bashar, Hafez Al-Assad, prese il potere nel 1970. Dopo una iniziale collaborazione con la OLP di Arafat, preferì appoggiare gruppi antisionisti alternativi, così come cambiare di bando (persino collaborando con Israele e i cristiani maroniti contro l’OLP in Libano) continuamente al fine di mantenere l’influenza in Libano.
“Adattarsi alle situazioni non strutturate”, si dice in psicologia. O, come nella calda estate della gioventù, andare un po’ con tutti senza amare nessuno. Mantenere il potere assoluto in Siria richiede proteggere una egemonia condivisa, sovranazionale, assieme alle altre potenze del Medio Oriente. In preparazione per la sua carriera di dittatore e padre dell’erede dittatore, Bashar si sarà esercitato col cubo di Rubik, il rompicapo tridimensionale che, nella versione 3x3x3, può assumere 43.252.003.274.489.856.000 combinazioni possibili: una sola quella corretta, come vuole la banale teoria. Oppure, il regime siriano sopravviverà all’onda del cambio in Medio Oriente? Il Regno Arabo della Siria fu fondato nel 1920: comprendeva Siria, Libano, Giordania, Israele e Palestina, e aree dell’Iraq e della Turchia. Durò solo quattro mesi perché arrivarono francesi e britannici a spartirselo. Tuttora, però, il destino della Siria è legato alle mosse dei vicini. L’acume del regime di Assad padre è consistito nell’anticiparle o nel cambiare pelle all’occorrenza. Un’occhiata furtiva allo scacchiere.
Israele, si sa, preferisce mille volte essere l’unico “regime democratico” della regione, piuttosto che essere minacciosamente circondato da “regimi democratici”. Come nel caso egiziano, teme ogni movimento popolare che pretenda cambi sociopolitici come se ciò implicasse necessariamente l’ascesa di un regime islamista conservatore. In questo senso, apprezza di al-Assad che reprima l’islam militante dei Fratelli Musulmani e proponga un islam “tollerante e quietista”. In ogni caso, si accontenterebbe di un regime siriano il più debole possibile.
Gaza. Il partito democraticamente eletto, Hamas, nasce dall’appoggio siriano in chiave antisionista. Imprevedibili le reazioni di Hamas alla eventuale caduta del finanziatore. ( ndr- è dforse la ragione che lo ha spinto frettolosamente a trovare un accordo di pace col ” nemico ” Olp dell’ ” odiato Ab u Mazen ” )
Libano. Dopo l’invasione israeliana del Libano del 1982, il partito sciita libanese Amal si scisse, con l’appoggio di Damasco e Teheran, dando vita a Hezbollah, il Partito di Dio, anti-israeliano e anti-occidentale, partito-milizia egemonico in Libano. In questo paese, la Siria è vitale per Hezbollah, che guida una coalizione nazionale che appoggia Assad.
Iran. Nel 1979, anno della rivoluzione islamista in Iran, il governo siriano, laico e arabista, si alleò con Teheran, teocratico e persiano. In questo modo, al- Asad rafforzò la sua propria minoranza alawi, una setta sciita imparentata con lo sciismo iraniano, e formò un asse di resistenza contro Israele e gli Stati Uniti che debilitò l’influenza egiziana in Medio Oriente. I legami di Hezbollah con la Siria sono il perno dell’alleanza fra Teheran e Damasco. Al-Assad ne beneficia perché questa alleanza lo rende “portavoce di un nazionalismo arabo sempre più islamizzato”. Se cadesse il regime di Assad, l’Iran perderebbe il suo unico alleato nella regione. Ciò potrebbe rinvigorire i riformisti iraniani, silenziati dalle elezioni presidenziali del 2009.
Iraq. I governi iracheni post 2003 hanno accusato il regime di Assad di permettere l’entrata di terroristi dalla frontiera siriana e di proteggerli, una volta rientrati – assieme a molti membri dell’ex partito Baath iracheno, sgusciti come anguille di mano ai giudici. Damasco ospita per lo meno 10 fazioni palestinesi, da Hamas alla Jihad Islamica. Carte da giocare contro gli Stati Uniti e Israele nelle negoziazioni per rafforzare l’influenza regionale. Comunque, i partiti sciiti che conformano la coalizione al governo, preferiscono fortemente un regime come quello di al-Assad, fondato sull’oligarchia degli Alawis sciiti sulla maggioranza sunnita, rispetto ad una alternativa sunnita.
Esattamente la prospettiva opposta, quella dell’Arabia Saudita. Di maggioranza sunnita, precisamente come la Siria. La superpotenza del Golfo scalpita dalla voglia di mitragliare a casaccio tutto ciò che spaccia per “influenza iraniana-sciita”. Un passo falso di al-Assad potrebbe servire da casus belli con il regime wahabita armato fino ai denti dagli Stati Uniti.
Turchia. Il premier Erdogan sgrida al-Assad per la lentezza nell’applicare le riforme richieste dai dimostranti. Gradirebbe, forse, che imitasse il modello turco, un regime che sposa l’islam alla democrazia. Teme, forse, una eminente guerra civile settarea o religiosa, e la possibilità di un esodo di massa di siriani verso la frontiera turca. Prova orrore verso i Kurdistans in plurale (come alla frontiera con l’Iraq). In caso di crisi siriana, la minoranza curda della Siria amerebbe acquistare la propria indipendenza, staccandosi da Siria e Turchia, in un colpo solo.
Sarà ipotizzabile “risolvere” il cubo di Rubik siriano? Il professore Ignacio Alvarez-Ossorio sottolineava come le “alleanze diversificate” del regime fossero state determinanti nel garantire la sua sopravvivenza. A discapito di qualsiasi previsione e dei tornado di cambiamenti che si sono scatenati, ad esempio, sul vicino Iraq, il cui dittatore (“mitico” Saddam Hussein, ndr) sempre del partito Baath, fu deposto e impiccato durante l’occupazione statunitense. Qualche brivido freddo all’idea di perdere il potere: ma poi si massacra per le strade, e passa tutto. I ventilatori dell’ONU hanno fatto svolazzare per aria eccezionali risoluzioni per chiedere la fine della violenza. Nel Mediterraneo si mescolano le urla. Di felicità, con tuffi e schiamazzi in bikini, per chi può permettersi lo svago. Di speranza di salvarsi dal naufragio di questa notte, per i rifugiati. E, anche in Siria, c’è chi urla dalla voglia di diventare da servi di partiti unici a cittadini che possano quantomeno votare.
Specialista in cooperazione internazionale. Autrice di "Romanzo di frontiera" (Albatros, Roma 2011), magia e realtá delle donne latinoamericane alla frontiera Messico-USA; "In Amazzonia" (Milano, Feltrinelli, 2006); "La Ternura y el Poder" (Quito, Abya Yala, 2006); "Una canoa sul rio delle Amazzoni: conflitti, etnosviluppo e globalizzazione nell'Amazzonia peruviana" (Gabrielli Editore, Verona, 2002); co-autrice di "Prove di futuro" (Migrantes, Vicenza, 2010).