I cittadini italiani hanno fatto il loro dovere, esercitando un loro diritto. Siccome i referendum abrogativi in Italia non raggiungevano il quorum dal 1995, praticamente da quando Silvio Berlusconi è sceso in politica, questa è già di per sé una buona notizia. Non è la sola, ma forse è preferibile commentare i dati referendari cominciando dalla parte dei vinti, che sono tanti, visibili e in larga parte criticabili.
Il primo sconfitto dal referendum, cioè da un voto eminentemente politico, è senza dubbio il governo. È chiaro, non si tratta di una sconfitta complessiva dell’intera azione governativa, ma di una sconfitta selettiva, su alcune decisioni, passate o future, cioè promesse, dal governo. Coloro che, nella coalizione governativa, si aspettavano un risultato al di sotto del quorum e consideravano lo stratagemma dell’astensione come un “no” potenziato, sono stati inondati da una marea di “sì”, questi davvero potenziati, perché hanno sconfitto sia l’astensione sia i difensori dello status quo.
I secondi sconfitti sono tutti quei giornalisti e giuristi che, da buoni cortigiani o da pessimi intellettuali, hanno deciso di indossare i panni dell’azzeccagarbugli, ripetendo a destra e a manca, tanto nei giornali “terzisti” così come nei quotidiani partigiani, che i cittadini possiedono un diritto all’astensione tattica. Per fortuna, gli italiani, che conoscono i loro diritti e i loro doveri, e sanno distinguere un obbligo da una facoltà, hanno deciso di andare a votare, anticipando o posticipando di qualche ora la classica gitarella al mare. Tra gli sconfitti si aggira mestamente anche, per quanto non in blocco e con alcune lodevoli eccezioni, la Radiotelevisione Italiana (RAI), che ha fatto di tutto per ritardare, camuffare e manipolare l’informazione sui referendum. Ormai è provato che, fortunatamente, l’opinione pubblica, distratta da una televisione “pubblica” solamente di fatto (e di canone), si forma e si informa altrove, direttamente e per altre vie.
Infine, sono stati sconfitti tutti quei politici e quei commentatori che si ostinavano a pensare che i “sentimenti” o le “emozioni” non debbano fare parte della vita politica o, peggio, che si debba controllarli, condizionarli, talvolta persino silenziarli. Il timore, la paura, la speranza, la capacità di indignarsi, solo per fare qualche esempio, sono parti integrante della polis e i politici più avveduti sono quelli che sanno interpretare e intercettare quei sentimenti, non certo chi preferisce far finta che non esistano o che provano ad aggirarli. Chi ci ha provato, ieri è rimasto alquanto scottato.
Sul carro dei vincitori del referendum si sono già buttate le figure e i figuranti più curiosi, anche chi, per amor di opportunismo, si è fatto paladino di battaglie referendarie da altri avviate e combattute. Per sgombrare il campo dagli equivoci e dagli opportunisti, è necessario chiarire fin da subito che i vincitori del referendum sono stati, prima di tutto e di tutti, i cittadini, al di là, al di sopra e, spesso, anche nonostante i partiti politici. Sono i dati stessi a confermare questa interpretazione: hanno votato all’incirca 28 milioni di persone, cioè 11 milioni in più degli elettori che, nel 2008, avevano scelto la coalizione di centro-sinistra (allargata alla sinistra radicale). Pertanto, i rimanenti partecipanti, che hanno permesso di raggiungere il quorum e addirittura rigettato senza tentennamenti l’ultimo tentativo di protezione ad personam proposto dal governo (il legittimo impedimento), erano elettori di centro-destra (o astensionisti), i quali hanno interpretato l’invito alla libertà di voto generosamente concessa dai loro leader politici come una libertà nel voto, non dal voto.
La vittoria dei cittadini italiani è stata duplice: da un lato, hanno espresso la propria opinione in maniera chiara, efficace e altisonante, dall’altro lato, si sono riappropriati di uno strumento di democrazia che, negli ultimi anni, si era dimostrato piuttosto spuntato. È senz’altro necessaria una discussione su come migliorare e potenziare lo strumento del referendum (magari ricalibrando il quorum, ad esempio, mettendolo in rapporto ai partecipanti nelle ultime elezioni legislative, oppure prevedendo l’introduzione di quesiti propositivi), ma l’elemento di fondo rimane immutato: il referendum è un’arma (pacifica, ma sempre politica) che i cittadini possono utilizzare per influenzare direttamente le decisioni e i decisori, per far sentire alta e forte la propria voce, per sopperire alle carenze di una democrazia rappresentativa che, anche a causa di una legge elettorale “porcata”, fatica a rappresentare i molteplici e mutevoli interessi presenti nella società italiana.
Se il “servizio pubblico televisivo” rientra nell’elenco dei perdenti, chi giustamente può assumere il ruolo dei vincitori sono i social networks e i loro più o meno giovani utilizzatori (mai “finali”, perché la rete non conosce fine). Si tratta di un’informazione democratica, spesso epidemica, che nasce dal basso e procede per flussi incontrollabili e passaparola vorticosi. Non c’è dubbio, quindi, che la spinta poderosa per il raggiungimento del quorum sia arrivata da internet e dalle sue piattaforme di partecipazione virtuale. Una lezione da tenere a mente per chi vorrà vincere anche in futuro.
Last but not least, chi esce vincitore dal referendum è una certa idea della politica, che non scappa di fronte alle legittime paure dei cittadini, ma cerca di offrirvi risposte adeguate e ragionevoli. Un’idea di politica fatta da cittadini informati e partecipanti, che si assumono le proprie responsabilità in prima persona e in prima linea. Ora, il quesito vero, al quale il referendum non poteva dare alcuna risposta, è: “come offrire una efficace rappresentanza a quell’insieme multiforme di interessi, visioni e posizioni che si oppone da più fronti all’azione del governo?”. Sedersi sugli allori, sarebbe semplicemente stupido. Cercare invece di costruire una alternativa politica che, usando le recenti parole del Presidente Napolitano, sappia essere “credibile, affidabile e praticabile”, è la scelta più saggia, ovviamente più faticosa, ma decisamente più vantaggiosa e potenzialmente più gratificante.
Marco Valbruzzi è ricercatore presso l'Università di Bologna. Autore del libro "Primarie. Partecipazione e leadership" (Bononia University Press, 2005). Ha curato il saggio "Il partito democratico di Bersani" (Bup, 2010) insieme a Gianfranco Pasquino e Fulvio Venturino.