Nel Corno d’Africa si muore di fame e la fame sta sfinendo l’ Etiopia. Ma la fame africana non commuove le multinazionali dei paesi prosperi e preoccupati per i giochi della finanza che fanno tremare le Borse. Il governo di Adis Abeba ha afcfittato 35 mila chilometri di terre agricole ad una multinazionale che produrrà per 99 anni biocarburanti al posto di mais e grano. Europa ed Asia devono alimentare un tenore di vita che richiede energia ogni giorni di più. Nella previsione dell’esaurimento lentissimo del petrolio, il governo ha accolto l’invito di una società indiana la quale “non potrebbe sopportare limitazione energetiche che ostacolerebbero l’evoluzione positiva della produzione nazionale”. Anche due società italiane hanno ottenuto il diritto di sfruttamento di terreni fertili al confine col Kenia. Produrranno mais, olio di palma e canna da zucchero per il mercato europeo. I 90 mila abitanti della regione verranno allontanati: finiranno in campi profughi nei quali stanno arrivando 720 mila bambini “in pericolo di morte imminente per malnutrizione acuta grave”.
Non più soltanto petrolio, oro, diamanti, coltan (per i nostri telefonini ed apparecchi elettronici!), cobalto e rame. Oggi multinazionali e interi stati avidi di affari, nell’era della crisi del sistema finanziario, hanno cominciato a mettere le mani sull’acqua e sulla terra. Che sono diventati un vero e proprio business. Come fossero azioni. Alla faccia dei poveri. Si vuole mercificare tutto. Ora sul pianeta siamo in 7 miliardi e qualcuno pensa che siamo troppi, visto che la domanda di cibo aumenta per il boom dei consumi nei paesi emergenti e per i repentini cambiamenti climatici: troppo pochi purtroppo pensano invece che dovremmo ripartire le risorse più equamente e vivere più semplicemente per permettere agli altri semplicemente di vivere.
Finché il 10% dell’umanità si accaparra l’83% delle risorse mondiali capite che stiamo impazzendo. Se tutti consumassero come l’Occidente ci vorrebbero 5 pianeti per sfamare l’umanità. Ma ne abbiamo uno e basterebbe per tutti. Invece si vuole privatizzare l’acqua ed espropriare le terre. E lo squilibrio tra domanda e offerta di beni agricoli legittima i paesi con forti capacità finanziarie e multinazionali a loro legate ad acquistare terreni in paesi stranieri, soprattutto in Africa. Dove sarebbero già 35 milioni gli ettari comprati o affittati. Che interessa a loro se la sicurezza alimentare dei paesi poveri è a rischio? Che la vita è minacciata perché il cibo è diventato una merce su cui guadagnare e speculare? Ecco perché i prezzi delle materie prime vanno alle stelle, dai cereali al pane, dal riso al cous-cous. Il balzo nell’ultimo anno è del 71%.
Mentre l’agricoltura europea è sovvenzionata fortemente dalle politiche comunitarie (altrimenti chiuderebbe bottega!) quella africana è espropriata delle sue potenzialità. Il presente e il futuro dell’Africa vengono ancora rubati. Dopo averne già danneggiato e compromesso il passato. Non stupiamoci allora che interi popoli sull’orlo della disperazione, dal Maghreb al Medio Oriente, scendono in strada e fanno la rivoluzione gridando libertà, lavoro, giustizia e rispetto dei diritti umani.
Lo chiamano fenomeno del land grabbing, espropriazione della terra. Cominciò nel 2009 quando l’impresa coreana Daewoo affittò per 99 anni metà del territorio del Madagascar per la coltivazione del cibo destinato a Seoul: la protesta del popolo malgascio fece cadere il presidente. Da allora è corsa alle terre agricole, soprattutto in Africa subsahariana dove si concentra circa il 45% della terra adatta alla coltivazione non ancora sfruttata.
L’Arabia Saudita ha acquistato 1 milione di ettari in Etiopia sui 3 controllati da 36 paesi o multinazionali straniere. Cinesi, indiani, americani: sono tutti in fila. Ci son dentro anche gli italiani come l’Eni in Congo, l’Agroils di Firenze in Marocco, Senegal, Camerun, Ghana e il gruppo Green Waves in Benin. Intanto la regione del Katanga (quella ricchissima di minerali) nella Repubblica democratica del Congo si appresta ad aprire le porte a nuovi acquirenti della terra mentre il nuovo Stato del Sud Sudan l’ha anticipata cedendo a 28 compagnie straniere 2,64 milioni di ettari.
In Africa togliere terra è togliere vita. In paesi dall’agricoltura di sussistenza come il Ciad e molti altri la terra è la fonte prima del sostentamento. Speculare su di lei è minacciare la possibilità per gli africani di esistere. Gli oltre 800 milioni che soffrono la fame nel mondo aumenteranno. Qui si sta giocando col fuoco e il neocolonialismo galoppante non si rende conto del pericolo. Basta fare soldi e affari. Come se la vita dei poveri non contasse.
Conta ed esiste solo chi consuma. Non è un caso allora che il 35% delle acquisizioni di terra non sono finalizzate a produrre cibo ma agrocarburanti. Come l’etanolo che si ottiene dal mais o dalla canna da zucchero. Nuove fonti di energia per alimentare il sistema economico e finanziario ottenute togliendo cibo ai poveri. Pazzesco! L’impero del denaro non sa più cosa inventarsi. Anzi sì. Cercano migliori rendimenti e produttività con gli ogm, improbabili invenzioni genetiche per nutrire il crudele sistema senza più rispetto per la natura. Che ha già cominciato a ribellarsi.
Molti si giustificano che c’è bisogno di più cibo per sfamare questo mondo che cresce e di maggiori quantità di carburanti per sostenere un sistema dai piedi di argilla che rischia di crollare. Anche il presidente della Fao, Jacques Diouf, è sulla linea dei potenti: “Il futuro aumento della produzione deve in definitiva venire da un aumento produttivo sostenibile e maggiore intensità di semina, piuttosto che da più terra a disposizione delle colture”. Tradotto: aumentare la produttività (vedi ogm) e non toccare altre terre minacciate dall’aumento della desertificazione (al 21% in Africa) e dall’avanzata delle zone urbane.
Nessuna messa in discussione del sistema. Nessuna critica o proposta di fare passi indietro. I grandi non rinunciano, danno il loro ben-essere ( ma è davvero tale?) come un diritto acquisito non negoziabile. Pochi hanno invece il coraggio di dire che il nostro sistema deve essere ripensato radicalmente. Per ripartire ad un altro passo. E che ogni anno si gettano nei rifiuti 1,3 miliardi di tonnellate di prodotti ancora commestibili. Quantità di cibo che basterebbe a sradicare la fame nel mondo.
Nell’Occidente della crisi il diritto al cibo resta sulla carta: per pochi ricchi sul pianeta è scontato, per molti un illusione. Da noi in Ciad si mangia una volta al giorno e non sai l’ora. Per questo ci soffro quando vergognosi cartelloni pubblicitari tappezzano le strade italiane invitandoci a far parte di un mondo surreale staccato dalla realtà. Come la pubblicità di un’automobile: “il lusso è un diritto”. Mi vergogno ogni volta che lo incontro e mi convinco che allora stiamo impazzendo. Mi chiedo su quale pianeta vivono i pubblicitari o su quale vorrebbero farci vivere. E quando sarà che i poveri potranno vivere e non solo sognare il diritto ad esistere.
Intanto, noi in fondo al Ciad, stiamo ancora cercando il corrispondente in lingua locale della parola “superfluo”.
Filippo Ivardi Ganapini è un giovane missionario comboniano. Opera nella missione cattolica di Moissala, Ciad meridionale.