Nel secondo Ottocento, sotto il peso dei fatti, pure i viaggiatori stranieri in Sicilia scoprirono la mafia: via via che si dipanavano la cronaca giudiziaria, la discussione politica, la letteratura specialistica sul tema. In particolare, senza che si pervenisse a una esplicita identificazione, che venne dopo, cominciarono ad avvertirne il piglio e a interloquire con le fonti nei primi anni sessanta, quando nella vita siciliana apparvero dei grovigli delittuosi che, per le logiche composite che lasciavano intendere, non potevano essere riconducibili al brigantaggio, pur crescente e all’offensiva in tutto il centro-sud, né ai malandrini della tradizione.
Nei modi di un incipit, in quella stagione fece rumore in particolare la vicenda dei pugnalatori, che cadde l’uno ottobre 1862, quando in diversi punti di Palermo, alla medesima ora, vennero uccise quattordici persone. Il processo, l’anno successivo, richiamò in effetti osservatori e giornalisti da vari paesi europei, come il politico francese Jules Logerotte, che nelle vesti di cronista spedì dall’isola varie lettere, rimarcando le lesioni del sud dopo l’unità, il tradimento delle aspettative, le movenze politiche del brigantaggio siciliano. L’assassinio del generale garibaldino Giovanni Corrao, proprio nel 1863, aggiornò peraltro i clamori, pure all’estero, mentre si divideva l’opinione nel paese: fra chi insinuava dubbi di mafia sull’ucciso e gli oppositori ai Savoia che dicevano con veemenza di responsabilità di stato.
In quel decennio, innumerevoli fatti di cronaca, pure minuta, concorrevano comunque nella definizione di una immagine opaca dell’isola: con la condivisione di fondo della maggiore stampa europea. D’altra parte, quella d’Oltremanica aveva motivo per rilanciare il tema dei briganti nel Sud italiano e in Sicilia, dopo le disavventure di William Moens che, sfuggito ai banditi presso Randazzo, curiosamente venne rapito a Paestum, per essere rilasciato dopo il pagamento del riscatto: come egli medesimo raccontò nel libro English travellers and italian brigands, stampato a Londra nel 1866. E non si trattava di novità, se già nel ’48 John Barlow, ex direttore della ditta Woodhouse, e il contabile Alison erano stati rapiti e liberati dietro il pagamento di cinquecento onze. Quale referente di prim’ordine degli inglesi facoltosi che dimorano nell’isola, era del resto naturale che il Times di Londra s’interessasse dei bubboni siciliani, dando risonanza a reclami, esposti, perfino a lettere, come quella che, proprio su banditismo e mafia, il parlamentare della destra Corrado Tommasi-Crudeli destinò nell’aprile 1870 al vescovo di Argyll.
In definitiva, in parte dei resoconti di viaggio degli anni sessanta veniva rappresentato un humus, venivano colti degli sfondi, ma non si riusciva ancora a stabilire dei nessi, a dare quindi un nome a una realtà, a un incalzare di atti e di fatti, che pure recavano già una fosca caratterizzazione. Il geografo francese Eliseo Reclus, in Sicilia nel 1865, non recava ancora gli elementi per poter “riconoscere” la mafia. Avvertiva nondimeno un certo stato di cose, se nelle note di viaggio, peraltro ricche di elogi sulla natura e il patrimonio artistico dell’isola, appuntava l’avversione dei siciliani verso le leggi e il conforto sociale di cui godevano i malandrini, con il beneficio dell’impunità. Solo nel decennio successivo, comunque, il tema della mafia s’insinuava dichiaratamente in alcuni diari, aprendo per certi versi una lesione, che riproduceva poi quella reale, nell’intimo dell’isola. Tutto questo, ovviamente, non a caso.
Nel 1871, dopo anni d’inchiesta sugli Stoppaglieri, il procuratore Diego Tajani faceva arrestare Giuseppe Albanese, questore di Palermo, con risvolti non da poco pure in Parlamento, mentre le statistiche uscite dalla commissione De Pretis, nel 1875, confermavano il primato dei delitti alla Sicilia. Nel ’76 usciva il rapporto della commissione Bonfadini, che deludeva. Ma nel medesimo anno venne stampata l’inchiesta di Raimondo Franchetti e Sidney Sonnino, e fu ancora rumore, nel paese e fuori. Ampi estratti, variamente condivisi, apparvero sui giornali francesi e d’Oltremanica. Lo storico tedesco Otto Hartwig, che era stato nell’isola nel ’60, a seguito degli eventi garibaldini, con risalto ne annotava i contenuti sulla “Preussische Jahrbücher” di Berlino.
E non basta. Nel ’76 ancora gl’inglesi, il “Times” in testa, ebbero motivo di rilanciare sul binomio banditismo-mafia, quando venne rapito dal bandito Antonino Leone, operante fra Villalba e Lercara Friddi, l’industriale John Forester Rose, titolare, come già il padre James, di alcune miniere siciliane. Auspice un capomafia, la vicenda si chiuse con la liberazione, dietro pagamento di diecimila onze. Ma fu lite fra il governo italiano e quello inglese quando, confortata dal “Times”, giunse la voce al capo del Foreign Office lord Derby che il brigante veniva osannato nell’isola come un Robin Hood.
In senso lato, andava intricandosi poi la questione siciliana, entro cui s’incasellala il bubbone della mafia. Era lo sconcio dei carusi nelle solfare, denunziato da Sonnino. Era il feudo che reggeva pressoché intatto a dispetto della storia, coi modi spicci dei campieri e dei militi a cavallo. Erano le repliche di Crispi alle rimostranze dei fasci. In sostanza, la Sicilia faceva sempre più notizia. E sempre più ne facevano, soprattutto, i processi di mafia, dopo quelli memorabili che recavano al centro gli Stoppaglieri di Monreale e i Fratuzzi di Bagheria. Il dibattimento che si tenne a Palermo fra il 28 agosto e il 18 ottobre 1883 contro gli Amoroso e i loro sicari, accusati di nove omicidi, venne seguito da decine d’inviati, italiani ed esteri.
In definitiva, era nelle cose che dei viaggiatori avvertiti, pur fedeli agli usi del Grand Tour, si esprimessero sul tema. Chi per spiegare a sé medesimo la lesione; chi per aggiungere argomenti alla propria avversione verso le società del sud, chiamando magari in causa le scienze positive; chi per condiscendere ai gusti dei lettori, mentre nell’isola e altrove la cronaca si riversava in una letteratura di genere che arieggiava il feuilleton. Era comune in ogni caso l’attenzione ai fatti, all’aneddotica, al dibattito italiano, che dopo Franchetti vedeva tra i partecipi Pasquale Villari, Giuseppe Alongi, Gaetano Mosca, Napoleone Colajanni, Giuseppe De Felice.
Il quadro delle opinioni si presentava quindi mosso, a partire da quelle radicali, che evocavano un iter altalenante di censure, variamente motivate. Per la milady vittoriana Frances Elliot, nell’isola nel 1879, la mafia era il segno di un insuperabile distacco dei siciliani dai popoli civili. E le faceva eco, anni dopo, l’abate francese Charles De Vitis, quando raffigurava gli abitanti dell’isola come vendicativi e dediti al delitto. Mentre lo svizzero Joseph Widmann, ugualmente perentorio sulle cose siciliane, puntava la sua invettiva sulle donne, dicendole megere e scimmiesche. Si tratta beninteso d’un pensare sintomatico, e nient’affatto peregrino nel secondo Ottocento: non privo comunque di corrispondenze in Italia, dove sin dagli anni di Bixio, recò un peso non indifferente l’opinione piemontese. Il generale Giuseppe Govone, autore nell’isola di numerose esecuzioni, era categorico nel dire in parlamento di una Sicilia impigliata nella barbarie. E lo scandalo che ne seguì fu in fondo contenuto.
In altri viaggiatori la resa dei mali siciliani si presentava invece compassata, sebbene non mancassero le iperboli e il colore. Nell’approccio al tema, il francese Gaston Vuillier traeva di certo profitto dalla frequentazione con il repubblicano Napoleone Colajanni, assertore delle origini sociali della mafia. Come altri visitatori dell’epoca, tenne nondimeno conto delle chiose del Pitré, mentre attingeva alla letteratura locale, in particolare ai Profili e fotografie per collezione di un anonimo, pubblicato nel 1878 presso la tipografia del “Giornale di Sicilia”. L’esito, come avvenne in René Bazin, che seguiva il medesimo iter, fu quello d’una figurazione binaria fra l’aneddotica e la sociologia, il dramma della cronaca e il dettaglio etimologico, non privo di forzata amenità.
Carlo Ruta si occupa di ricerca storiografica e di informazione. Dalla metà degli anni ottanta fino alla metà degli anni novanta è stato direttore di una rivista bibliografica e scriveva sul settimanale “Avvenimenti”. Attualmente scrive su "Il Manifesto", "Narcomafie", "Left Avvenimenti- L’Isola possibile", "Libera Informazione". Ha curato il sito web accadeinsicilia.net e il blog leinchieste.com. Con la casa editrice Rubbettino ha pubblicato "Gulag Sicilia" (1993), "Appunti di fine regime" (1994) e "Il binomio Giuliano-Scelba. Un mistero della Repubblica?" (1995). Con la casa editrice La Zisa ha pubblicato "Cono d’ombra" (1997) e "Politica e mafia negli Iblei" (1999). Con Mimesis ha pubblicato "Guerre solo ingiuste. La legittimazione delle guerre e l’America dal Vietnam all’Afghanistan" (2010). È socio onorario di Libera e di altre realtà associative.