Martina (e, ovviamente, non è questo il suo nome) è figlia di una famiglia non facile: in conflitto con la legge, drasticamente impoverita dagli eventi recenti, di salute malferma, incattivita dall’esito (per quanto prevedibile) della sorte. Martina non è docile e la sua riottosità è amplificata dalla frustrazione dei genitori. Martina ha subito feroci atti di discriminazione nel gruppo di amiche in cui era inserita lo scorso anno. Forse è solo carattere, forse è la somma di questi fattori, ma Martina è un’aguzzina perfetta. Le sue attenzioni particolari si sono rivolte contro una sua coetanea di origine pakistana, già nota ai servizio sociali perché la scuola che frequenta ne ha segnalato la malvestizione e la malnutrizione. L’argomento sul quale Martina ed io abbiamo discusso è stato proprio questa suo accanimento contro una persona debole.
Martina si è difesa: “Anche lei mi maltratta!”.
In lacrime, la maltrattata ha ribadito: “Mi dici che puzzo, se ti passo vicino ti allontani con una smorfia…”. Martina ha contrattaccato: “Tanto poi mi dici le parolacce!”.
Osservo inutilmente: “Che cosa ti aspetti, Martina? Che dopo essersi presa un calcio nel sedere torni anche per ringraziarti?!”.
La discussione si fa lunga, tra riesumazione di ricordi preistorici, precisazioni, analisi, capricci.
Cerco di ricordare a Martina come si sentisse lei, da esclusa.
Mi guarda e risponde: “A me è andata bene. E, comunque, anche se io mi comporto bene le cose vanno così lo stesso: non sono io a cambiare il mondo!”.
Non ho mollato l’osso, ho insistito, esemplificato, metaforizzato, citato, taciuto, combattuto sul senso individuale della responsabilità. E non ho segnato nemmeno un punto. Non con loro due.
Martina e la sua vittima erano d’accordo: il mondo va così e tanto vale rassegnarsi.
Per fortuna, sono una quarantenne che non smette di confondersi nell’utopia di un’umanità migliore.
Ovviamente, si accettano consigli.