Il questore Marcello Guida sta telefonando. Le 7 di sera, noi aspettiamo. “Caro professore, abbiamo dei sospetti. I suoi sono qui. Adesso li informo…”. Appoggia il telefono, guarda i giornalisti del Corriere della Sera. “Era Spadolini, vostro direttore…”. Due ore e mezza dopo lo scoppio di Piazza Fontana il questore fa sapere che le indagini inseguono gli autori del massacro. “Sette chili di tritolo in una capsula d’alluminio. Non a orologeria. Prima di svenire un impiegato ha visto un filo di fumo uscire da sotto un tavolo. Pensa a un incendio, ma senza preoccuparsi: solo un filo. Gira la testa per chiamare il commesso quando un soffio d’aria calda lo schiaccia alla parete. Ferito ma salvo. La miccia, dunque. Ne hanno trovato un mozzicone. All’uomo che ha nascosto la bomba sono bastati 40, forse 50 secondi per scappare. Correndo”. Le nostre voci chiedono: “Da solo?”. “Solo, ma con alle spalle un gruppo bene organizzato. La perfezione della bomba lo dimostra”. Di quale colore politico? Il questore sospira prima di sillabare la risposta. Poliziotto di lunga esperienza, sa come dosare la spiegazione. La sua carriera comincia a Ventotene, carcere-confino per antifascisti. Quando nel ’68 lo promuovono a Milano, i ragazzi della Statale ne ricordano il passato di “zelante funzionario della polizia di Mussolini”. Imponeva con severità regolamenti già terribili. Il prigioniero Sandro Pertini, malato di polmoni, scrive una lettera al ministero, e Guida fa sapere a Roma: “non è vittima della situazione come vorrebbe far credere”. Insomma, piagnone che imbroglia.
Insistiamo: “Di quale colore, signor questore?”. “Anarchici, direi: stiamo indagando”. Il 25 aprile un attentato aveva sconvolto la Fiera d Milano. Niente morti. Bombe artigianali. Qualche anarchico fermato, ma i sospetti erano rimasti sospetti. “Non riesco a capire. Le bombe della Fiera erano grossi petardi; adesso ci dice che nell’ordigno della banca c’è la mano di professionisti. Gli anarchici cosa c’entrano?”. “Per il momento non posso dire di più”.
Milano senza nebbia quel pomeriggio del 12 dicembre. I colori del Natale illuminano le vetrine. Rosso il colore di via Montenapoleone: tovaglie, festoni, rose di carta. Al caffè della Rai, corso Sempione, beviamo qualcosa di caldo. Biagi prepara “Terza B facciamo l’appello”. Arriva Mike Bongiono, sta montando Rischiatutto, novità 1970. Parliamo a voce alta per le sirene che corrono in strada. Bongiorno guarda verso il corridoio degli studi e prova a scherzare: “Forse registrano un poliziesco”. Ma le sirene continuano; telefono a Il Giorno. “Corri alla Banca Nazionale dell’Agricoltura. E’ scoppiato qualcosa. Forse una caldaia. Si parla di morti”. Ma i taxi dove sono? Spariti. Al volo sul tram che non arriva in piazza Duomo: l’ingorgo taglia le strade. Un silenzio irreale avvolge Piazza Fontana. La folla si allarga ogni minuto, tutti parlano sottovoce come in chiesa. Tacciono le nenie degli zampognari: guardano i lampi delle autolettighe con le cornamuse strette al petto. Dalla farmacia accanto vien fuori chi si è fatto medicare. Portano a braccia un giovane carabiniere svenuto nel salone della banca: l’angoscia per i 13 corpi coperti di sangue. Il fotografo Massimo Turchetti riemerge dalla hall affumicata: corre al Giorno con la foto simbolo della tragedia. Quel buco nero dall’alto e attorno le rovine.
Nel 1969 non si trasmettevano i giornali in tipografie lontane. Correvano nei camion della notte. L’edizione per Roma chiudeva alle 10 e mezza di sera. Nella piccola stanza del direttore Italo Pietra ognuno racconta cos’ha visto: testimonianze parziali che si somigliano. Una domanda tormenta Angelo Rozzoni, vice di Pietra, maniche di camicia, la matita in mano: dobbiamo far capire ai lettori chi è stato e perché. Alla fine Giorgio Bocca mastica la sua risposta: è un’infame provocazione. Dopo processi inutili, imputati e uomini anguilla sgravati per sempre dalla Cassazione, il titolo soffiato da Bocca nella prima pagina del giornale sembra scritto stamattina per ricordare i 40 anni della tragedia mai risolta.
Nei giorni che vengono dopo l’ufficialità conferma l’ipotesi di Guida. Ancora una volta attorno alla sua scrivania ascoltiamo come è morto Pinelli, anarchico volato dalla finestra della questura: suicida per la disperazione di aver fallito. Parla il dottor Allegra e il questore approva piegando la testa.
Ma è quel “correre” dell’uomo della bomba il dettaglio stonato che non riesco a spiegare. Non va d’accordo col Valpreda dalle gambe molli: ballava e aveva smezzo di ballare, la malattia glielo impediva. Poi una strana telefonata. Gian Luigi Fappanni, 25 anni, neofascista avventuroso, biondo col ciuffo, mi fa sapere, e fa sapere a Gian Luigi Melega di Panorama, di avere segreti dei quali si vuol liberare. Perché proprio con noi? Con qualche spillo avevamo raccontato i dubbi sulle prime indagini, e gli amici delle bande nere lo avevano arruolato per regalarci notizie che incolpassero i protagonisti della destra. Un notaio registra la trappola. Appena i giornali pubblicano i falsi segreti, la beffa della smentita. Si erano presi gioco così di Camilla Cederna: finti campi d’addestramento di Ordine Nuovo in Sardegna. Ma quale ansia li spingeva ad allontanare i sospetti da una destra ancora non coinvolta mentre il “colpevole” Valpreda annaspava in prigione? Cominciamo a verificare i racconti di Fappanni. Un giovane italo americano era in contatto con gruppi di Padova. A Milano Fappanni e gli altri lo incontravano nella bella casa alle spalle del Duomo, finestra affacciata su Piazza Fontana. Per due volte li porta in gita alla base Nato di Verona. Fappanni ricorda divise importanti e signori in borghese che abbracciavano il loro accompagnatore. Il quale esibiva nelle stanze milanesi ritratti di Hitler e Mussolini. Bisogna incontrarlo. Il portiere fa sapere che ha lasciato la casa il 10 dicembre, due giorni prima di piazza Fontana. E il ritratto immenso di Mussolini dov’è? “Davanti alla porta d’ingresso…”. Fappanni sembra preciso. Il portiere ci accompagna. Mobili e quadri spariti, ma in quella Milano fuligginosa resta l’ombra chiara di un quadro nel posto del duce adorato. Non basta. Chiediamo di controllare i committenti. Appuntamento al bar del metrò di Porta Venezia. Piccolo caffè. Due ore prima si riempie di passeggeri senza fretta: autisti, fattorini, cronisti del Giorno. Mauro Galligani (grande fotografo rapito in Cecenia) fissa l’immagine dei signori che salutano Fappanni. Parlano e se ne vanno soddisfatti. La ricompensa è un posto alla Citroen di Parigi e soldi per il viaggio e dove dormire. Continuiamo a non fidarci. Fappanni li richiama dalla cabina dei dimafonisti del Giorno. Registrano ogni parola. È proprio vero. Ma chi sono i trappollanti? Angelo Del Boca, redattore capo del giornale, sfoglia le immagini di Galligani: “Questo è Piero Cappello, redattore del Borghese…”. Patrizio Fusar, cronista di nera, riconosce due uomini di Tom Ponzi. Finalmente scriviamo. Ma Il Giorno battagliero e progressista continua a non fidarsi. Di ora in ora la pagina scivola dai piani nobili dei giornale all’ultima di cronaca, raggelata da un cappello di poche righe che prendono distanza: “Fra le tante voci che ogni giorno indicano piste nuove sulle bombe di Piazza Fontana, per dovere di cronaca ne raccogliamo una che ipotizza eventuali responsabilità della destra”. Non va nell’edizione nazionale, solo edizione di Milano. Fappanni sparisce. Sei mesi dopo la notizia: ha cercato di morire. Sei mesi dopo Freda, Ventura, i fascisti di Padova, Rauti, Zorzi e Ordine Nuovo diventano i protagonisti di chi scava nei bunker del nuovo fascismo alla ricerca della verità che servizi più o meno segreti stanno deviando su trame immaginarie. Peccato non averlo capito.