La Lettera

Per ripulire la democrazia inquinata i ragazzi hanno bisogno di un giornale libero

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È abbastanza frequente che editori della carta stampata chiudano i loro giornali. Anche a me è capitato quando dirigevo “L’Avvenire d’Italia”, e oggi si annuncia una vera e propria epidemia a causa della decisione del governo di togliere i fondi all’editoria giornalistica. Ma che chiuda Domani di Arcoiris Tv, che è un giornale on line, è una notizia …

La Lettera

Domani chiude, addio

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L’ironia di Jacques Prévert, poeta del surrealismo, versi e canzoni nei bistrot di Parigi, accompagna la decadenza della casa reale: Luigi Primo, Luigi Secondo, Luigi Terzo… Luigi XVI al quale la rivoluzione taglia la testa: “Che dinastia è mai questa se i sovrani non sanno contare fino a 17”. Un po’ la storia di Domani: non riesce a contare fino …

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Teatro bene comune per il palcoscenico di dopodomani

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Teatro Municipal - Foto di Elton Melo

“Non si può bluffare se c’è una civiltà teatrale, ed il teatro è una grande forza civile, il teatro toglie la vigliaccheria del vivere, toglie la paura del diverso, dell’altro, dell’ignoto, della vita, della morte”. Parole di Leo …

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Il governo Berlusconi non è riuscito a cancellare l’articolo 18, ci riuscirà la ministra Fornero?

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Il governo Monti ha perso il primo round con Susanna Camusso che fa la guardia alla civiltà del lavoro, fondamento dell’Europa Unita. Sono 10 anni che è morto Marco Biagi, giuslavorista ucciso dalle Br. Si sentiva minacciato, chiedeva la scorta: lo Scajola allora ministro ha commentato la sua morte, “era un rompicoglioni”. Rinasce l’odio di quei giorni? Risponde Cesare Melloni, …

Società » Qui Mafia »

La crisi dà una mano e gli affari si allargano fino a Piazza degli Affari: Milano nasconde tanti segreti, preziosi quando si vota

Il boss vola in borsa, economia illegale all’ombra della politica

01-04-2010

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Sintomatico come altri fatti di questo periodo, l’arresto dell’architetto palermitano Giuseppe Liga, indicato dai magistrati di Palermo come erede del boss Lo Piccolo, offre degli spunti per argomentare sull’evoluzione del fenomeno mafioso. Se a lungo, come istituzione prima ancora che come organizzazione, la mafia siciliana si è resa partecipe di un sistema che le ha consentito di porre delle ipoteche sullo Stato, negli ultimi decenni è divenuta soprattutto una avvolgente trama di denaro. Ed è il denaro a sollecitare in questi tempi le condotte e gli stili di vita che stanno portando, nell’epicentro della holding criminale, al sovvertimento di alcune regole. La società italiana ha subìto mutamenti importanti, si direbbe di rilievo antropologico. La civiltà contadina in Sicilia non esiste più, se non nei musei etnologici e nel ricordo degli anziani. Gli stili di vita a Palermo e Catania come nei centri minori sono cambiati in profondo. È quindi nelle cose che tutto questo abbia delle ripercussioni dentro gli orizzonti di mafia. Ma tale sfondo, pur importante, non spiega del tutto i nuovi iter del fenomeno.

Malgrado i ritardi accumulati nel business del narcotraffico, che potrebbero essere comunque eliminati negli anni a venire, il valore aggiunto della mafia, nei contesti dell’economia legale, non demorde. Lo si evince in modo coeso dai modi con cui si fa impresa nell’isola, in taluni settori in particolare, su cui non ci si sofferma perché lo si è già fatto in altre sedi. È rilevabile altresì in modo induttivo dalla curva ascendente delle confische avvenute nell’ultimo decennio, mentre dai rapporti di magistratura e polizia, oltre che da ricerche recenti condotte da associazioni di categoria, a partire dalla Confesercenti, emerge che le economie dei siciliani rimangono sostenute in Liguria, in Lombardia, in Veneto, nel Nord Europa, a dispetto delle congiunture negative e della stessa crisi globale. Tutto questo richiama i fasti dei decenni passati che hanno reso la mafia dell’isola una holding internazionale e, in tema di PIL, una voce economica in ascesa. La situazione odierna appare comunque quella di un ordine interamente rovesciato. Il vecchio contratto di servizio che legava gli «uomini d’onore» a pezzi di Stato è andato sciogliendosi infatti nello scambio fra economia e politica, più mimetico e avvolgente. Si tratta di definire allora quale nuovo paradigma può reggere i processi attuali.

È il caso di prendere le mosse da alcuni aspetti del fenomeno che appaiono in declino. In via generale, è legittimo dubitare sulla consistenza di alcuni vecchi riti nelle prassi di mafia dell’ultimo Novecento. Nella pubblicistica sul tema si direbbe che non sia mancata infatti una certa abitudine a generalizzare dati che appartengono a situazioni specifiche. Dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia più quotati, da Antonino Giuffrè ad Angelo Siino, da Francesco Campanella allo stesso Massimo Ciancimino, che pure ricopre un ruolo diverso, emerge comunque un quadro diverso, pragmatico, legato alla consistenza degli affari piuttosto che alle «liturgie». In situazioni come quelle odierne, che sempre meglio si muovono a tempo di Borsa e di internet, sarebbe d’altronde curioso che le consorterie si attardassero a tradizioni desuete, risalenti alla mafia ottocentesca dei giardini. Il passato continua beninteso a fare aggio sul presente, ma, necessariamente, su un piano diverso: quello dei patrimoni da investire, che non possono combinarsi bene, oggi, con i santini che bruciano e il sangue, oltre che con le latitanze lunghe e inevitabili: nelle cantine e nei tombini, piuttosto che nei classici paradisi. È ancora da definire quanto il vecchio Bernardo Provenzano sia stato interprete delle nuove istanze di mafia. Rimane da valutare altresì a fondo i ruoli che sono andati ricoprendo i più giovani di quello che è stato il gotha della mafia siciliana. Si conoscono tuttavia alcuni esiti, su cui è il caso di riflettere.

A partire dal 1994 lo stato maggiore dei corleonesi è stato falcidiato, con gli arresti di Salvatore Riina, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Pietro Aglieri, Bernardo Provenzano, Salvatore Lo Piccolo, Giovanni Nicchi. Molto probabilmente, se non si avranno eventi risolutori di altro tipo, finirà in carcere pure Matteo Messina Denaro, l’imprendibile Diabolik. È supponibile infine che la medesima sorte toccherà ad altri esponenti. Si direbbe che occorra fare allora un ricalcolo, sui modi d’essere della mafia, oggi. Ma per un attimo occorre indugiare ancora su quel che scompare della «società onorata», con riferimento a un fatto sintomatico: la determinazione con cui boss noti e meno noti stanno mandando in crisi il culto dell’analfabetismo. Non si intende dire dei foglietti dattiloscritti con cui Provenzano comunicava dal proprio rifugio con affiliati e complici, ma di qualcosa di più sfuggente. Si è argomentato abbastanza sul fatto che oggi i figli dei mafiosi usano avviarsi alle libere professioni. E le ragioni di un tale abitudine, anch’essa sintomatica, non mancano. Ma cosa pensare del fatto che oggi sono gli stessi capimafia, in cattività, a darsi allo studio? Le cronache ne danno conto in modo eloquente. Pietro Aglieri e Calogero Brusca stanno studiando Lettere. Tommaso Spadaro, già re del contrabbando siciliano, si è appena laureato in Filosofia con una tesi su Gandhi. Filippo Graviano e Antonio Galliano stanno concludendo gli studi di Economia e Commercio. Il boss della mafia di Riesi Carlo Marchese sta studiando Giurisprudenza. Si potrebbe continuare perché i casi sono tanti. Regge comunque l’ipotesi che anche questo derivi da un collasso di “valori”.

Fin qui, quel che declina. Si tratta di dire adesso della mafia va crescendo, che reagisce alla crisi, muovendosi a passo di Borsa. Come si accennava, la holding criminale si erge su una montagna di soldi che in buona misura sono stati ereditati dai business del passato, frutto appunto di accordi con la politica, di egemonie internazionali conquistate con il fuoco delle lupare e dei kalashnikov. Sono soldi che contaminano, persuadono, spalancano porte, alimentano i circuiti dell’arricchimento. In certi frangenti sono penetrati nei salotti della buona finanza. Verosimilmente, come ha affermato il direttore dell’Unodc Antonio Maria Costa, riferendosi ai proventi dei narcotici in senso lato, servono in questi tempi per rinsaldare le difese di gruppi bancari in crisi. In ogni caso impongono soluzioni inedite, che non possono essere attinte dalla tradizione della forza. La mafia necessita di avvocati, commercialisti, consulenti, manager, formatori, agenti, esperti di finanza. Lo si è detto, ma non basta. Necessita soprattutto, tanto più in questi tempi, di una progettualità «normale», oltre che di individui «normali», che non hanno mai sciolto persone nell’acido, che non hanno commesso delitti efferati né sono braccati dallo Stato; che sono bensì del tutto integrati nei contesti economici e territoriali, come sembra essere il caso dell’architetto Liga appunto. E tale acquisizione, concettuale prima che vissuta realmente, attestata comunque da fatti, come quello appena citato, potrebbe fare la nuova antropologia degli «uomini d’onore».

Il caso di Francesco Campanella sembra essere al riguardo paradigmatico. Il reo confesso di Villabate, come lui stesso racconta, alla domanda di un magistrato della procura di Palermo se fosse un mafioso, dopo aver riflettuto un attimo, ha risposto che non poteva esserlo nel senso tradizionale. Non era stato affiliato in modo rituale. Non era stato inquadrato in un mandamento. Non doveva rispondere delle proprie azioni a un capofamiglia. Aggiungeva tuttavia che mafioso lo era a pieno titolo, e con tale status entrava negli affari comuni, trovandosi perfettamente integrato nell’orizzonte d’interessi che fa oggi la mafia. La cosa potrebbe apparire contraddittoria. In realtà viene a delinearsi, una volta ancora, qualcosa di inedito, che evoca una sovversione di «valori», uno scarto antropologico, sulle vie, appunto, di una ricercata normalità. Storicamente, la “società onorata” ha fondato il proprio potere sulla differenza. Ha rivaleggiato con lo Stato, insidiandogli il monopolio della forza, rendendosi istituzione e organizzazione, arrogandosi un ruolo giuridico, che le ha consentito di fare leggi vincolanti, emettere sentenze, comminare sanzioni. Ponendosi su un gradino più in alto, il boss ha gettato sul piatto degli affari, illegali e legali, il peso della propria hìbris guerriera. Ma tutto questo, fino a che punto può muoversi, nel mondo di oggi, a tempo di Borsa e di internet? I fatti dimostrano che esistono problemi. E sarebbe curioso che gli stessi boss, i responsabili di omicidi, i latitanti, sottoposti ormai da anni a una intensa pressione investigativa da parte dello Stato, non se ne rendessero conto. Come si diceva, è fin troppo facile prevedere che Matteo Messina Denaro verrà preso, come lo saranno altri. È naturale allora che il centro del potere mafioso tenda agli slittamenti, verosimilmente non in direzione di singole persone, ma di un soggetto collettivo.

È probabile che la mafia, traendo lezione da quella calabrese, mediti situazioni meno verticistiche e più circolari, per corazzare, meglio di quanto abbia fatto in questi difficili decenni, i patrimoni ingenti di cui è titolare. In ogni caso, il futuro del monstrum criminale va scindendosi da taluni destini personali. Se si tratta di tracciare allora un profilo attendibile delle cose odierne, potrebbe essere ancora paradigmatica la vicenda di Francesco Campanella. Formatosi negli anni di Totò Cuffaro, il mafioso di Villabate, ha esordito da consulente finanziario di un gruppo bancario. Ha fatto però presto a inserirsi in politica, ponendosi nel punto di congiunzione di imprenditoria e poteri pubblici. Di lì si è portato più in alto. È divenuto amico personale di Clemente Mastella, che lo ha nominato segretario nazionale dei giovani dell’Udeur. Si è introdotto negli uffici decisionali dell’Udc siciliano, che, per consensi elettorali, si pone fra i più importanti del paese. Ha avuto incarichi di gestione di fondi comunitari sul piano interregionale. Ha goduto di una forte frequentazione con Cuffaro, che ha avuto pure come testimone alle nozze. Ha preso parte ad affari importanti, in Sicilia e in Calabria, garantiti da esponenti nazionali dell’Udc. Nel medesimo tempo, da uomo di mafia, si è speso per modernizzare le economie dei boss di area palermitana, in particolare di Bernardo Provenzano, perché il controllo del territorio potesse essere portato a un livello inedito, al riparo quindi dall’iniziativa giudiziaria. In tale quadro, si direbbe «normale», ha promosso infine, prima di essere arrestato, il progetto integrato di sviluppo denominato Metropolis Est, con l’adesione e l’impegno finanziario di ben quattordici comuni del Palermitano.

Ci sono beninteso aspetti ineliminabili, che fanno il fondamento stesso della holding criminale. Pur motivata a percorrere vie necessarie alla sopravvivenza, la mafia non può estraniarsi dagli affari illegali, né liberarsi dalla hìbris guerriera che fa la sua differenza, senza avviarsi fatalmente all’implosione. Se lo scambio fra clandestino e legale rimane il dato costitutivo, il rapporto fra i due livelli è però mutato vistosamente, per certi versi fino all’inversione. E su tale mutato rapporto si pone il problema. In sostanza, se a lungo gli impieghi legali della consorteria sono stati il naturale risvolto delle attività clandestine, negli ultimi anni sta avvenendo qualcosa di diverso: sono gli affari economici in senso lato, quelli che sostengono il PIL, a fare aggio sulle attività di ruolo. Non c’è nulla di definitivo, ovviamente. Rapporti investigativi di questi anni testimoniano con sufficiente chiarezza che i siciliani stanno facendo il possibile per attivare i collegamenti fra l’isola e gli Stati Uniti ai fini di un recupero nel narcotraffico intercontinentale. L’ampiezza delle risorse che la holding mafiosa ha messo in gioco, su tutti i piani dell’economia, suggerisce tuttavia che, pure nell’eventualità di una ripresa egemonica nei traffici clandestini, che non è affatto remota, la vocazione a una certa normalità, in grado di contaminare e condizionare meglio l’orizzonte del legale, di tenere aperte quindi delle prospettive, è improbabile che venga meno.

Carlo RutaCarlo Ruta si occupa di ricerca storiografica e di informazione. Dalla metà degli anni ottanta fino alla metà degli anni novanta è stato direttore di una rivista bibliografica e scriveva sul settimanale “Avvenimenti”. Attualmente scrive su "Il Manifesto", "Narcomafie", "Left Avvenimenti- L’Isola possibile", "Libera Informazione". Ha curato il sito web accadeinsicilia.net e il blog leinchieste.com. Con la casa editrice Rubbettino ha pubblicato "Gulag Sicilia" (1993), "Appunti di fine regime" (1994) e "Il binomio Giuliano-Scelba. Un mistero della Repubblica?" (1995). Con la casa editrice La Zisa ha pubblicato "Cono d’ombra" (1997) e "Politica e mafia negli Iblei" (1999). Con Mimesis ha pubblicato "Guerre solo ingiuste. La legittimazione delle guerre e l’America dal Vietnam all’Afghanistan" (2010). È socio onorario di Libera e di altre realtà associative.

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