Alle ore 13.00 del 16 aprile, sei dei nove rifugiati della nave da carico ” Vera D”, sono stati rilasciati dal CIE (Centro di identificazione ed espulsione) di Brindisi, su istanza del giudice, perché presunti minori. Abbiamo accolto questa notizia con un urlo di gioia: giustizia fatta per gli immigrati, una vittoria per gli attivisti napoletani che hanno difeso passo passo i nove immigrati.
Il nostro impegno è iniziato quando il 7 aprile la nave da carico “Vera D”, che batte bandiera liberiana, aveva attraccato al molo 51 nel porto di Napoli, dichiarando di avere a bordo nove immigrati clandestini (erano saliti segretamente ad Abidjan, in Costa D’Avorio). Per motivi di sicurezza la “Vera D” è stata bloccata dalle autorità portuali fino al 12 aprile, quando gli attivisti antirazzisti ne sono venuti a conoscenza. Da quel momento gli attivisti hanno iniziato a presidiare la nave perché non salpasse, dato che il Ministero degli Interni vuole che gli immigrati vengano respinti. La lunga trattativa fra la compagnia della nave e gli attivisti si è conclusa nel cuore della notte di quel 12 aprile. Alcuni attivisti, accompagnati da un legale, sono saliti a bordo per incontrare i nove immigrati. Tutti hanno chiesto l’asilo politico e sei di loro si sono dichiarati minorenni. Subito dopo è stato presentato un esposto alla Procura della Repubblica e all’autorità portuale, dove si richiedeva il diritto di asilo, nonché la tutela dei sei minori. Così i nove clandestini (cinque nigeriani e quattro ghaneani) sono sbarcati alle ore 12.00 del 13 aprile. Una bella vittoria questa, in un’Italia che ha votato il “Pacchetto Sicurezza” di Maroni, un’Italia che sta ‘respingendo’ i disperati della storia. È straordinario che il Comune di Napoli abbia dato la disponibilità ad accoglierli.
I nove immigrati sono stati poi trasportati all’Ufficio dell’Immigrazione della Questura di Napoli. Abbiamo presidiato l’Ufficio per tutto il pomeriggio, proprio perché temevamo un colpo di mano. Le trattative tra gli attivisti, i sindacalisti e i rappresentanti del Comune di Napoli con la Questura di Napoli, hanno continuato senza sosta. I nove immigrati sono stati esaminati all’ospedale e trovati tutti maggiorenni: 18 anni di età. Questa notizia ci aveva fatto infuriare perché ci sembrava ovvio che almeno tre erano minorenni. A posteriori, posso dire che la trattativa è stata una farsa ben recitata, perché la decisione era già stata presa dal ministro Maroni a Roma e alla Questura toccava solo ubbidire.
Alle ore 20.00 tentiamo l’ultimo incontro con il dirigente dell’Ufficio. Fu un momento durissimo. Ci disse che i nove dovevano essere trasportati al CIE di Brindisi. Insistemmo sul fatto che c’erano dei minorenni. «Se ci sono dei minorenni – replicò il dirigente – me ne dispiace». A quel punto persi le staffe. «Come può un pubblico ufficiale – urlai – dire “se” ci sono…. Ma in che paese viviamo?». «Devo ubbidire», mi rispose. Uscimmo con tanta rabbia in corpo. E ci disponemmo davanti al portone dell’Ufficio, da dove dovevano uscire i nove per essere trasportati a Brindisi. La Questura inviò un primo scaglione della Celere, guidato da una donna tutta sorrisi. Nel frattempo, altri attivisti arrivavano: eravamo circa un centinaio. Allora inviarono un secondo squadrone della Celere, armato di tutto punto. Ci confrontammo così, faccia a faccia, per mezz’ora. Poi l’ordine di caricarci. Tentammo di resistere, ma fummo travolti. Alcuni di noi riuscimmo a svincolarci e a ritornare davanti al portone. «Dovrete passare sul mio corpo!» – urlai – «Voi non potete portare dei minorenni in un lager». Uno spintone mi fece barcollare e cadere. «Vergognatevi!» – dissi al Dirigente dell’Ufficio Immigrati. «Vai via, sobillatore!» – mi gridò, mentre le gazzelle della polizia sfrecciavano via portando gli immigrati. Ero talmente scosso che mi misi a piangere. Quello che avevamo subito era poca cosa in confronto al grido di dolore dei nostri fratelli, anzi figli, africani.
La notizia, oggi, che la questura di Brindisi ha riconosciuto che ben sei di loro erano minorenni e che sono stati liberati, ci conforta e ci fa sentire che non abbiamo lavorato invano.
I 70 anni di padre Alex Zanotelli sono anni movimentati. Ha studiato in Italia e Stati Uniti. Missionario comboniano, prima esperienza in Sudan dove le autorità cominciano a tormentarlo: minacce e pressioni. Torna a Verona, diventa direttore di Nigrizia, giornale che raccoglie testimonianze e riflessioni dei missionari sparsi nel mondo. Ma Zanotelli ha scoperto chi nutre le guerre. Ne conosce le terribili sofferenze . E Nigrizia diventa il giornale che testimonia le nostre disattenzioni e i nostri affari. Fabbricazione di armi e mine antiuomo, per esempio. Si arrabbiano politici illustri: Craxi, Andreotti, Forlani. Zanotelli deve lasciare. Nel 1989 va a Nairobi e sceglie di vivere nell’inferno di Korogocho, sterminata bidonville africana dove non entra nemmeno la polizia. Diventa fratello e protettore dei più deboli. Nei suoi diari strazianti racconta di adolescenti con genitori moribondi per aids. Non sanno come vivere. Gli chiedono il permesso di prostituirsi con turisti europei negli alberghi a cinque stelle. Mantengono la famiglia così. Torna in Italia: sceglie di vivere nel quartiere Sanità di Napoli in un vecchio campanile crollato dal quale ricava due piccolissime stanzette. La sua battaglia in difesa dell’acqua lo ha trasformato nel simbolo dell’uomo di pace e giustizia che non si arrende. Ha fondato i beati Costruttori di Pace e Rete Lilliput.