Mi appoggio alla balaustra e guardo il mare di Aral. Non è proprio un mare, ma un lago lungo da Venezia a Santa Maria di Leuca, Il battito leggero sulla ringhiera fa pensare ad un gabbiano stanco del volo. Invece sono i gomiti di un vecchio, occhi mongoli sotto il colbacco. Si affaccia con nostalgia. Un sogno sembra averlo strappato da casa. I giardini appena attraversati, il cielo che accompagna i suoi pensieri, tutto ha perso colore. Ad El Aralsk, città affacciata nella punta nord di questo strano mare, le piante non fanno ombra. Non hanno mai visto l’erba i bambini che rotolano i giochi nei prati di sabbia. Non possono impastare la sabbia per far crescere un castello. Manca l’acqua. Un litro d’acqua costa venti volte un libro del petrolio trovato dai giapponesi appena più in là. Lo hanno trovato anche i caschi gialli dell’Agip, della Shell, della Exxon e di tutte le sorelle dell’oro nero impegnate a trivellare il Kazakistan, viscere che nascondono giacimenti ricchi come i deserti dell’Arabia Saudita. Le nuove miniere di re Salomone non finiscono mai. Ma ad El Aralsk l’acqua arriva ogni due giorni in treno. E quando si apre il rubinetto dalle tubature incrostaste di porcherie vien fuori un liquido verde ed è la cosa più limpida che sia possibile bere. Nelle sorgenti sotterranee del lago fantasma navigano disserbanti alla diossina ( milioni di tonnellate ) e residui delle guerre biologiche che i russi hanno sperimentato negli anni della Mosca rossa fregandosene delle popolazioni rivierasche: un milione e mezzo di persone tra Kazakistan ed Usbekistan, sponda sud del mare davvero morto. Non c’è più. E’ stato cancellato da un piano quinquennale quando i due paesi erano le ultime repubbliche meridionali dei soviet. Avevano bisogno di cotone ed il Cremino ha deciso di irrigare le steppe pompando le acque abbondanti dei fiumi che scendono dai ghiacciai del Pamir. Dall’altra parte comincia la Cina. In pochi anni il mare d’Aral si è ridotto a qualche pozzanghera fra le dune di un immenso deserto. Veleni al posto delle onde. Affiorano come croste di neve impastati nel sale.
Sono arrivato ad Aralsk con la pioggia, miracolo breve del disgelo. Il mattino dopo accanto ad ogni pozzanghera un cane morto. Ha bevuto. Gli è mancata la forza per un solo passo. Gli 80 mila abitanti di El Aralsk, capitale della regione perduta, vanno avanti come se non fosse successo niente. Mangiano, ascoltano la radio, fanno l’amore inseguendo le onde azzurre che immagini ormai sbiadite provano a ricordare. Boschi che nascondevano le dacie dove scendevano per le vacanze i principi degli zar e i burocrati del partito. Canali con ponti di un decò arricciato� tagliavano e univano gli alberghi di una città spensierata. La si attraversava in barca come a Venezia: da un albergo all’altro fino all’azzurro del mare. Dove si specchiavano lampioni che la ruggine ha trasformato in ubriachi dalla testa piegata. El Aralsk lanciava i suoi fiordi nelle < acque più pescose del mondo >.
Il vecchio colbacco guarda il mio giubbetto da straniero. Vuole spiegare qualcosa. Alza il bastone verso una nave che il tramonto fa sembrare nuova, due chilometri al largo: < Un rottame. Hanno rubato i motori, il legno della fiancata e l’albero che reggeva l’argano delle reti da pesca >. Com’è profonda l’amarezza. < Conosceva il padrone� ?� >.� L’interprete traduce. Il vecchio batte sul petto il pomo d’argento del bastone, un pesce che ride. < Se lo conosco ? E’ la mia nave >. Guarda le gobbe dei cammelli che dondolano attorno a prua e comincia il racconto dei raccolti miracolosi: due tonnellate di pesce in una sola notte. Succedeva trent’anni fa. Adesso il lago è un deserto e i boschi legna secca. Senza l’umidità le piante sono morte, e senza le piante che tagliano l’aria, il vento della Siberia attraversa la steppa con passo furioso. Nuvole polvere. Ad Alma Ata avevano raccomandato di� non partire senza mascherine e comprare garze per fasciare naso ed orecchie. Con la sciarpa premuta sulle labbra, il capitano Kalyev Abdjam fa segno: < Venite con me >. Devo ammirare le foto che lo mostrano al timone di un peschereccio lucido come uno specchio. E il diploma d’onore < capitano di prima classe >, Lenin e bandiere rosse nell’ angolo della pergamena. Apre il cancello. Finestre appannate, verze che bollono. Ogni sera, da vent’anni, passeggia sul lungo lago nell’attesa dell’imposssibile ritorno. Ma quando alza gli occhi la nave è sempre sotto la duna: < Voglio vivere finché ricominciano i colori >.
La nipote sta imboccando un bambino svogliato. Ne aspetta un altro. Ha vent’anni, non si è mai tuffata. Prima di seccare solo fango. I suoi figli verranno su convinti di essere figli del deserto. La maledizione che perseguita Aralsk è la fragilità dei bambini, nati da genitori che mangiano e respirano veleno. Tutti anemici, color cera, croste sulla pelle: anche la polvere che li avvolge è avvelenata.
Quando il primo giorno finisce ho nostalgia delle mie abitudini borghesi. Ho voglia di un tavolo, una stanza, un cono di luce per raccogliere i pensieri sul quaderno che l’emozione ha lasciato vuoto. Voglia di un caffé forte da bere con gli occhi arrossati dal computer.� Ma il computer è inutile. L’albergo Yarsat sopravvive all’agonia della città dove nessuno può andarsene: pattuglie armate sorvegliano ogni strada e le piste sabbiose che attraversano l’ex lago. Allo Yarasat si paga in anticipo: soldi imbucati in una piccola ferritoia. Le dita di una donna senza faccia li conta e riconta dietro la grata di legno. Nella camera mancano i vetri. Rubinetti asciutti. Un secchio d’acqua verde costa mezzo dollaro. La camera due dollari a notte, appena quattro volte più di quanto serve per lavarsi la faccia. Un bagno ogni trenta stanze. I vacanzieri primo novecento si accontentavano così. Dove posso comprare carta igienica ? I denti d’oro della padrona sorridono ai denti d’oro della figlia. Bisbiglio da mercato nero e con la complicità di chi distribuisce polveri proibite, sussurra. < Posso procurarla, ma costa cara >. Un dollaro al metro. La notte è l’oscurità di un altro secolo. Tremano le candele, fili di luce. Lungo lago silenzioso. Ho vergogna a pensarlo mentre mi avvolgo nelle lenzuola senza bucato: mi mancano i rumori. Conto i passi di fuori. Ciabatte turche trascinano la polvere. Mi affaccio per scoprire chi é. Solo un’ombra. I fari di una jeep danno l’illusione di una festa. E’ la ronda militare
Il mattino dopo un Carnera dagli occhi lunghi ci aspetta nella hall, se è possibile chiamarla in questo modo. < Amici italiani…>. Lo dice in italiano. Gigante vestito di scuro, cappello nero di chi si affaccia sul palco della piazza ex rossa.. Con la rapidità di un’esibizionista spalanca l’impermeabile da cerimonia: < Guardate ! >. < Vestiti italiani >, ultime parole nella nostra lingua. Ricominciano i triangoli con l’interprete. E’ il sindaco- governatore della città. La sua missione lo impegna a rfaccogliere le ultime gocce appestate dello Syr Dayra, uno dei fiumi che milioni di ettari cotone stanno bevendo: l’illusione del governo è il ripristino di un piccolo stagno per tener viva la speranza del lago che ritorna e < si sta allargando >.� Alshbay Bamyrz viene ogni tanto ad Alrask. Fabbrica scarpe attorno al mar Caspio. Ha comprato i macchinari a Montebelluna dopo un memorabile viaggio a Venezia. Gondole dorate navigano nelle vetrine della sala da pranzo. Mi trascina nel giardino di sabbia della bella casa appena costruita per sottolineare la� dignità della carica che ricopre. < Guarda >. Guardo: tre cespugli di un verde pallidissimo, alti come papaveri. < Betulle. Le ho portate dal Caspio tre mesi fa. Se resistono vuol dire che l’esperimento funziona. Parchi e boschi copriranno le colline…>. Apre ogni porta con l’entusiasmo di un vecchio ragazzo, rolex d’oro, camicia di seta. < Questa è la camera da letto…>. A terra due trapunte cucite come un sacco a pelo; cuscini variopinti appoggiati alle pareti. Nè un mobile, né un tavolo, nessun quadro. Scoppia la risata: < Ce l’ho fatta stupirvi >. < Non riesco a dormire nei vostri letti che spaccano la schiena. Continuiamo ad essere il popolo delle carovane sotto il tetto di un palazzo >. < Carovane >, è anche il nome del� <Corriere della Sera > del Kazakistan. Gira gli occhi verso la sala da pranzo. La cameriera aspetta in piedi, la moglie aspetta seduta. Due voci trafficano in cucina. < Scaldate il latte di cammella. E’ buono nel caffè >.
Finalmente partiamo con la contentezza di aver visitato una zona proibita. Ma lasciare Aralsk è come riprendersi da una malattia. Lento viaggio di ritorno. Cinquecento chilometri di niente. Andiamo a Kzyl-orda� dove un Antonov cannibalizzato in due ore ci riporta ad Alma Ata, vecchia capitale, Milano del paese: affari, decisioni politiche e multinazionali abitano qui. L’aereo è la sintesi� di tre vecchi Antonov che non riuscivano a volare.� Ibrido proibito.Non può figurare nei computer degli aeroporti, eppure il volo è stato tranquillo, mentre i cinquecento chilometri di steppa diventano una pena col cuore in gola. E’ il nastro d’asfalto steso dai russi mentre giocavano alle guerre biologiche. Adesso la pista è abbandonata. Il gelo la sgretola, 25 sotto zero.� Mille sbarramenti� ripropongono i controlli militari. Bastano cinque dollari per fare alzare le sbarre ai familiari dei soldati che da due anni non prendono paga. Vivono mangiando pane vecchio. Cuociono l’erba raccolta nei prati, quando l’erba c’é. Incontriamo cammelli selvaggi. Si dissetano nelle voragini dell’asfalto disfatto. All’improvviso carcasse di missili e rottami giganteschi di navicelle spaziali accompagnano la strada. Le cupole di Baikonur, cape Canaveral russa, galleggiano nel vuoto come astronavi. Cominciano i cartelli: proibito fotografare, pericoloso sostare o avvicinarsi. Diossina e crusca di plutonio. Di fronte a Baikonur una città di capannoni: da Leninsky sono usciti� i missili a lungo puntati contro l’Europa. Reticolati e binoccoli fanno capire: guai se vi avvicinate Nessuno lungo i viali e davanti agli hangar. Non un filo di fumo dalle ciminiere. Solo la voce della torre di guardia rimbomba negli altoparlanti: < Primo avviso. Tornate indietro > Metallica come un robot.< Torniamo indietro supplicano gli occhi della ragazza interprete e del taxista di Kzyl-orda. Parla sottovoce all’interprete e l’interprete traduce. < Domani voi partite. Noi viviamo qui >. Meglio tornare.