A trent'anni dall'omicidio del giornalista del Corriere, il mio ricordo. Eravamo "compagni di banco", seduti uno accanto all'altro, e insieme correggevamo bozze e discutevamo della realtà che ci circondava. Poi dopo il delitto...
Il giorno dello sciacallo: quando mi accusarono di aver ammazzato Tobagi
27-05-2010
di
Maurizio Chierici
Trent’anni fa hanno ucciso Tobagi. Il ricordo di quei giorni confonde il dolore all’angoscia delle cose successe dopo. Lavoravamo allo stesso tavolo, terzo piano via Solferino, in tre, con Giampaolo Pansa. Gli inviati andavano e venivano, ci si incontrava quasi mai. Di ritorno da qualche posto aprivo la porta: Walter stava sempre scrivendo o telefonava con la penna degli appunti. Raccontava della follia di un terrorismo che sembrava invincibile. “Finirà”, e spiegava in quale modo. Analizzava i deliri che minacciavano gli incolpevoli con la razionalità di un cattolico attento all’evoluzione dei tempi della follia.
Parlava senza alzare la voce rallentando il discorso nel dubbio di un’ironia sussurrata: “Chissà se ho ragione…”, convinto che la strada nella quale camminava era la strada giusta. Due libri (ordinati da Raffaele Crovi) rafforzano un’amicizia dai rari incontri. Abbiamo corretto le bozze uno di fronte all’altro. Walter ricostruiva l’Italia nera degli “Anni del manganello” nella proiezione della violenza politica che insanguinava le cronache di quei giorni. Una sera ci siamo incontrati a Roma. Chiacchiere di una cena per scoprire chi eravamo. E dalle tasche è uscita la foto di una bambina piccolissima: “Si chiama Benedetta…”. Quando la vedo in tv o l’ascolto alla radio o sfoglio il suo libro dedicato al padre che gli assassini le hanno portato via, penso alla tenerezza del ragazzo impegnato nell’esercizio di un coraggio che considerava normale, ma normale non era se è finita così.
Quel 30 maggio comincia l’incubo. Di Bella, direttore, vuole parlarmi. Un telex del ministero degli Interni, Ufficio Affari Riservati, mi accusa di essere basista del delitto “organizzato da Dario Fo con i suoi amici palestinesi”. “Ci credi?” tremavo sbalordito. “Non ci credo”, risponde. “Ma è arrivato ad altri giornali; qualcuno scriverà”. Labirinto dei sospetti; facce sconosciute che frugano nella mia vita. Due signori dei servizi continuano ad interrogarmi. Sfogliano il libro dell’intervista ad Arafat nel bunker di Beirut. Pagine ripiegate con sottolineature rosse. E la voglia di scoprire se condividevo la lotta armata dei palestinesi.
Antonia Mulas era la fotografa compagna nel viaggio in Libano: l’aveva scelta la Mondadori come un regalo. Bravissima. Il poliziotto anziano puntava il dito sull’immagine di una profuga avvolta nella bandiera dalla stella a cinque punte: “Stella delle Brigate Rosse. Chi è questa donna?”. Non lo sapevo, non l’avevo mai incontrata. Loro insistevano. Rispondevo, pensando: anche chi è colpevole può rispondere così. E l’uomo delle domande insisteva fino allo sfinimento. Qualche giornale pubblica la notizia sul “primo sospettato”: “Il Giornale” di Montanelli, “Il Tempo” di Roma; più tardi “il Borghese” e “Gazzetta di Parma”, città dove vivo. Mio padre non esce più di casa. Mi salva, Berti, direttore dell’Ansa Milano. Al flash che annuncia l’agguato, un suo redattore punta il dito sul mio nome.
Berti si arrabbia; lo sospende dal lavoro. Passano tre giorni e il ministero dell’Interno fa sapere che il telex non è uscito dai suoi segreti. Allora Berti va da Gianni Granzotto, presidente dell’Ansa, per raccontare la coincidenza tra le parole del giornalista punito e la velina falsa di Roma. “Parlane col questore…”. E gli interrogatori finiscono. Accuse imbucate da chi non sopportava il libro con le risposte di Arafat. Finalmente si fa viva l’Associazione lombarda dei Giornalisti: Santerini chiede solo comprensione per lo sciacallo.
“Povero ragazzo, non c’è con la testa. Dagli una mano”. Poi arrestano Barbone e gli altri assassini nella Milano degli intrighi. Dal Corriere a Berlusconi prosperava la P2 e craxismo e corruzione si allargavano verso l’Italia 2000. Niente è più inutile che disotterrare i ricordi in questi giorni difficili. Ma è disastroso cancellare la memoria che i ragazzi non conoscono. 30 anni fa ritrovo il silenzio. Cominciano rabbia e malinconia per Walter che non c’è più.