Cosa direbbe il maestro che ha cantato il Risorgimento se sapesse che il suo Va' pensiero viene usato contro l'inno di Mameli?
Presidente Zaia, malgrado il nome Verdi non è leghista
14-06-2010
di
Gino Spadon
Che il governatore del Veneto, Luca Zaia, abbia o non abbia ordinato di cantare il “Va pensiero” verdiano al posto dell’inno di Mameli è questione che si esaurirà nel solito gioco delle conferme e delle smentite. Resta il fatto, al di là dell’episodio di cui tanto si parla oggi nei giornali, che la Lega ha espresso, da sempre, sentimenti che vanno dall’avversione al vero e proprio disprezzo per l’inno nazionale. Tale atteggiamento, giudicato di volta in volta come genuina espressione di un’insofferenza fortemente radicata nella “gente” padana, come intollerabile manifestazione di protervia o come sanguinoso oltraggio alla nazione, altro non è, a mio parere, che la perfetta testimonianza di un immedicabile analfabetismo. Basterebbe infatti (sempre che si conosca l’alfabeto) paragonare i due testi per rendersi conto che il solo ad avere una qualche attinenza con gli ideali (parola grossa!) leghisti è proprio l’inno di Mameli i cui versi “Dall’Alpi a Sicilia / Dovunque è Legnano” evocano il ruolo centrale svolto dal Carroccio nella lotta contro il Barbarossa. “Ma – potrebbe obiettare lo Zaia una volta toltasi la fetta di polenta che sembra impastargli la bocca – vuoi mettere la retorica stantia dell’inno di Mameli con lo slancio, la freschezza dei versi di Va pensiero”? Beh, a me non sembra proprio che questo sia un motivo dirimente, anzi! Infatti, se è vero che l’inno nazionale ha espressioni di dubbia comprensione come “dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa”… “Stringiamci a coorte” o parole come !”speme, core, squilla”, è altrettanto vero che il coro verdiano ha termini ugualmente ostici come “clivi, aure, olezzano, membranza, favella, fatidici, traggi, concento”, oppure nomi propri come “Solima”, in cui non tutti vedono la denominazione greca della città di Gerusalemme o infine espressioni, non proprio appartenenti alla lingua quotidiana, come “Arpa d’or dei fatidici vati, Perché muta dal salice pendi”. Mi domando, fra l’altro, quale scoliasta leghista rivelerà ai valligiani del Piemonte, della Lombardia o del Veneto i nomi dei fatidici vati padani costretti al silenzio. Ma poi, chi spiegherà a questo popolo, ghiotto di frementi carmagnole o di serventesi bicaudate, perché gli aedi padani abbiano dovuto appendere la loro arpa d’oro, ora muta e solitaria, ai salici della campagna bergamasca, bresciana o trevigiana? Ah, buon dio!, se il ridicolo uccidesse, che bisogno avremmo di provvedimenti volti a sfoltire le aule parlamentari e gli infiniti carrozzoni che infestano il nostro paese?
Gino Spadon vive a Venezia. Ha insegnato Letteratura francese a Ca' Foscari.