Puzzo di piscio che invade le narici, forme umane immobili legate ai letti, gemiti e urla che filtrano attraverso porte sbarrate, sguardi vuoti. «Ce l’hai una sigaretta?» mormora un’ombra al tuo fianco, parole pastose tra gengive senza denti, divelti da tempo dall’elettricità. Sono gli anni ’60, questo è il manicomio.
Qui ci stanno i matti. I matti da nutrire, lavare, vestire. Punire se necessario. Gente pericolosa, pericolosa e imprevedibile, quasi delle bestie, esseri inferiori nati per errore in corpi umani. A volte cavie. Rappresentano la vergogna delle famiglie, individui che bisogna allontanare, rinchiudere, relegare in questo buco nero della società. La follia non è un male normale, dalla malattia mentale non si guarisce, la si cova dentro, nel DNA. Magari resta sopita per una vita, ma più nulla si può fare quando si palesa. Una volta emersa dai recessi cerebrali in cui si cela non fa ostaggi. Il matto non va curato ma gestito, contenuto, ammaestrato se possibile. Con le buone o le cattive, almeno questo sta a lui deciderlo. Confisca immediata degli oggetti personali all’ingresso. Qui si arriva e si rimane, contando i giorni che mancano alla morte.
Sarà necessario un uomo come Franco Basaglia per rendersi conto delle mostruosità dell’istituzione totale. Una volontà superiore che ti stringe tra le sue spire e non ti lascia più andare; mangiatrice di uomini che non si accontenta dei soli corpi, ma che divora tutto: diritti, dignità, la stessa appartenenza alla categoria umana.
Con Basaglia ha inizio una nuova era della psichiatria italiana. È il tempo dell’apertura dei manicomi, della riumanizzazione del malato di mente, della battaglia antipsichiatrica, della lotta all’emarginazione. È la rivoluzione della follia. L’instabile approdo finale prende corpo nella legge 180/78, detta legge Basaglia. Normativa che istituisce i servizi pubblici di igiene mentale, regola le modalità del trattamento sanitario obbligatorio, impone il ricorso a terapie più umane e dà il suo contributo nella costituzione del Servizio Sanitario Nazionale.
Questa legge lascia però ampi spazi grigi, non definendo la tipologia di strutture da attivare e le modalità di cura e trattamento dei pazienti. Inizialmente si brancola nel buio, i più volenterosi vanno per tentativi, traendo ispirazione da quei pochi avamposti isolati dove qualche sperimentazione è già stata fatta: Gorizia e Trieste. Ma manca il know how, la maggior parte del personale è impreparato. C’è la legge, ma non chi sia in grado di applicarla. Spesso i pazienti vengono semplicemente sbattuti in strada, abbandonati a se stessi. Prima che il Parlamento approvi un piano nazionale unitario passeranno anni. Tutt’ora restano aperte le polemiche riguardanti la reale efficacia della legge, per alcuni solo da perfezionare e aggiornare, per altri da rivedere fin nei suoi principi fondanti.
Ma oggi, nell’Italia del 2010, nell’era in cui la scienza è tornata a poter essere definita tale, ormai libera da atavici pregiudizi; dove appositi corsi di laurea preparano coloro che saranno i futuri operatori del settore, qual è la situazione?
Marika, laureata con eccellenti voti in una delle migliori facoltà di psicologia d’Italia, si aspettava altro. Come nel caso di molti studenti di psicologia, anche il suo l’ingresso nel mondo del lavoro è avvenuto tramite la carriera di educatrice, mestiere che le calza perfettamente. È stato l’incontro con la burocrazia a spiazzarla. Per lo Stato ogni utente è una voce in bilancio, i fondi sono scarsi e le cooperative sociali faticano a fornire servizi di livello adeguato. I Servizi Sociali spesso non vanno oltre il pagamento dei pasti agli utenti, ma è un diritto riservato solo a una ristretta minoranza. Nonostante la carriera relativamente breve, Marika ha già avuto a che fare con una discreta varietà di casi, facendosi un’idea piuttosto chiara della situazione. Racconta di G., 31 anni, la cui madre non è autosufficiente ed è quindi affidato agli educatori praticamente ventiquattr’ore su ventiquattro. La sua vita è scandita dalla routine del lavoro al parcheggio, la residenza al centro e le attività ricreative.
Espone poi la situazione di R., rimasto senza nessuno e intestatario di alcuni appartamenti, che la cooperativa spera di farsi affidare per poter realizzare nuovi centri residenziali ad uso dei propri utenti. Ben diversa dallo sciacallaggio, questa situazione è imposta dalla necessità di sfruttare tutte le fonti possibili per fornire servizi migliori. È dura la realtà in cui operano le cooperative sociali. Organismi che si auto sostengono e in certi casi si trovano a lavorare ai confini del volontariato, più per una forma di dovere deontologico che per reale interesse economico. In tutta Italia non si contano le situazioni border-line in cui lo Stato è una presenza aleatoria, dove non ci sono diritti garantiti. Le cooperative sono una delle poche ancore di salvezza per i casi più estremi.
L’alternativa sono le associazioni di volontariato (spesso di matrice cattolica) o, nei casi peggiori, la strada. Il rapporto ideale educatori/utenti non viene quasi mai rispettato, nella cooperativa di Marika tre operatrici si trovano a dover gestire dodici casi di diversa gravità. Ogni individuo è legato alla propria storia e a differenti necessità, che per essere gestite richiedono una conoscenza dettagliata della singola situazione. Dodici persone da conoscere a fondo. In questo ambiente la dedizione ha un ruolo fondamentale.
Mirco conta invece quasi trent’anni d’esperienza nel settore. Anche lui di formazione psicologica, conseguì la laurea proprio negli anni della rivoluzione psichiatrica italiana. Più lucido e navigato, la lunga esperienza nel settore gli ha insegnato qualcosa. Sa districarsi in queste acque, ne conosce secche e scogli sommersi, e sa come spesso non sia facile aggirarli.
Gli domando in che modo, dopo la legge 180, si sia stabilito che tipo di strutture da attivare, se e come si sia giunti alla definizione di pratiche condivise. Spiega come le metodologie di trattamento delle gravi forme di disagio mentale (schizofrenie, psicosi, gravi forme di depressione) dipendano in gran parte dalle caratteristiche sociali del territorio. Sono pratiche aspecifiche, se si vuole generiche, modi d’integrare, di prendersi cura più che di curare. Ogni area ha una propria storia, tradizione e “specializzazione”. Grande peso hanno avuto le istituzioni di cura già presenti sul territorio. Mi porta l’esempio di Rimini, città in cui vive e lavora, dove la tradizione si è sviluppata prevalentemente nell’area delle problematiche infantili. Ciò a causa della presenza in zona di grandi strutture che ospitavano casi gravi, provenienti da tutto il territorio nazionale. Le uniche pratiche veramente condivise riguardano le cure farmacologiche. I malati sono però tenuti all’auto somministrazione, che gli operatori, non avendo preparazione specificatamente medica, devono limitarsi a supervisionare. Ma verificare che le gocce assunte siano davvero quattro, e magari non cinque o otto, è cosa davvero problematica, se non impossibile.
Quando domando se sia effettivamente possibile guarire dalla malattia mentale un lampo divertito gli attraversa lo sguardo. Spiega come nel caso di serie rotture esistenziali, di profonde crisi che assumano la forma del disagio mentale, più che guarire per tornare alla propria vita precedente si vira, si cambia vita se va bene, ci vuole anche fortuna: «Si emigra dal proprio mondo sociale, famigliare e simbolico e si resta un po’ emigrati. La realtà diviene il luogo di un travaglio, della ricerca di un proprio posto nel mondo e dell’appartenenza a un qualche discorso sociale.»
Ne risulta che la gran parte degli utenti sarà probabilmente legato a vita ai servizi di cura e assistenza, è quindi fondamentale che questi funzionino bene, così da poter garantire a tutti una reale vita, non la mera sopravvivenza.
Nonostante la differenza di età, esperienza, formazione e collocazione geografica, la valutazione di Mirco rispetto al proprio lavoro è ben poco difforme da quella di Marika: «I salari di chi opera nel settore sono spesso vicini allo sfruttamento, intorno ai 1000 euro».
A trentadue anni dalla promulgazione della legge 180 il dibattito è ancora aperto, poiché numerosi sono i punti su cui è ancora necessario lavorare. Proprio in questi giorni a Trieste (dal 21 al 24 giugno), si svolge Impazzire si può, incontro nazionale di persone e associazioni con l’esperienza del disagio mentale. Ciò dimostra come, nonostante le numerose problematiche sociali, burocratiche ed economiche, la volontà di procedere sulla via del miglioramento non si sia mai spenta all’interno di questo variegato mondo. Ciò è particolarmente importante nell’interesse dei tanti che in questo mondo sono coinvolti, in particolare nel ruolo di soggetti deboli, e per cui ogni passo avanti corrisponde ad un potenziale miglioramento delle proprie condizioni di vita.
Eliano Ricci, classe '85, è laureato in Scienze della Comunicazione presso l'Università di Bologna, lavoratore mediamente precario e musicista. Si interessa di politica, cultura alternativa e pubblicità.