Giovanni Ventura si è portato via i misteri che ne hanno accompagnato la vita violenta. Non solo le bombe sui treni e le bombe di piazza Fontana, ma l’avventura boliviana agli ordini dei coca generali e del dittatore Banzer, in compagnia di Stefano Delle Chiaie, «uomini sicuri» garantiti dai servizi segreti italiani. A Santa Cruz de la Sierra, Delle Chiaie «lavorava» con Klaus Barbie, torturatore di Lione scappato nell’ultimo angolo del mondo quando i nazisti hanno abbassato le armi. Ventura, non si sa. Si sa della clandestinità nell’Argentina dei dittatori P2 ben raccomandato dalla rete P2 dei nostri 007 che ne avevano favorito la fuga dall’Italia. Ma il filo della violenza che l’ha tenuto a galla è rimasto invisibile dietro manifesti pacifisti e solidarietà verso i mondi disperati. Imbroglione dalle buone maniere, ha preso in giro tutti. E i soldi non sono mai mancati. Soldi di chi?
Filò, ristorante italiano di gran moda a Buenos Aires, è stato l’ultimo travestimento. Perfino l’inconsapevole Guccini viene trascinato per arricchire con l’estemporaneità di un piccolo spettacolo, il mito del Ventura «intellettuale pacifista». Non sapeva e appena gli spiegano chi é, scappa inorridito. Tavoli accoglienti, cartoline regalo. No alla guerra. Aiuta i bambini che muoiono di fame. Ipocrisia giocata su due binari: apparire ciò che non si è palesando un’identità che facilita la fuga quando ti pescano con le mani sporche. Insegnamenti elaborati da Pio Filippani Ronconi, ex comandante SS- Sturmbrigate morto a 80 anni qualche mese fa. Nobile del sacro romano impero, nazista per vocazione e orientalista per scienza (come declama ammirato l’elogio funebre apparso su Il Giornale di Feltri) si era guadagnato la Croce di Ferro combattendo a Nettuno per fermare lo sbarco degli alleati: «Strisciava sotto i reticolati, sgozzava il nemico col coltello, arma nella quale eccelleva». Ventura, Zorzi, Freda – i tre di Piazza Fontana – erano suoi allievi, vicini e lontani, perfino sui banchi dell’università. Quando Filippani Ronconi diventa un vecchio signore perduto nel buddismo comincia a scrivere sul Corriere della Sera, fine anni ’90, ma la reazione del comitato di redazione e del direttore De Bortoli gli chiudono le pagine in faccia. Nel Filò di Ventura, tovaglioli rigorosamente neri. Cameriere che sembrano ausiliarie di Salò. Vestito alla marò, basco nero con la punta sull’orecchio, Denny De Biaso, veneziano, sorveglia la sala cercando avventori italiani per scambiare due parole: «Sconto Alitalia?», chiede al momento dei soldi. Non solo l’Alitalia ma ogni manager di passaggio gode del favore della razza. Dodici anni fa la nostra ambasciata offre un pranzo per festeggiare l’uscita del Corriere della Sera a Buenos Aires. Al Corriere non lo sapevano, ma in cucina c’erano i cuochi di Giovanni Ventura. Lui passeggiava fra gli invitati, vice padrone di casa dopo l’ambasciatore.
Come ha ricordato il giudice D’Ambrosio, è stato un personaggio centrale nell’attentato di piazza Fontana, e non solo. Nel ’66 spedisce duemila lettere a duemila ufficiali dell’esercito invitandoli ad insorgere contro il governo “dell’inutile democrazia”; viene assolto per insufficienza di prove a Catanzaro, scarcerato con l’obbligo di una residenza sorvegliata, ma se ne va in America Latina, passaporto passato sotto banco dai servizi segreti. La Bolivia ha bisogno di gente come Ventura e Delle Chiaie ma appena il dittatore se ne va e si riaffaccia la democrazia, Delle Chiaie cerca protezione da Pinochet e Ventura scivola a Buenos Aires. Passaporto falso: arrestato, subito liberato dalla buona grazia dei servizi italiani. Anni di niente e ricompare che è un’altra persona. Frequenta la libreria Gandhi, bivacco della sinistra radicale, degli utopisti che si parlano addosso, infiltrato speciale. Eccita chi vuole attaccare le caserme dove ingrassano i militari colpevoli di torture durante la dittatura. Predica l’assalto, suggerisce strategie. E quando le teste calde e un frate si buttano, l’imboscata li aspetta con la precisione che la gola profonda ha disegnato. Due morti, e decine di prigionieri mai tornati. Subito dopo il profugo dal passaporto falso comincia a spendere tanti soldi. Prima la pizzeria gran richiamo, poi Filò: una star. Nessuno ricorda più i timer scanditi dagli orologi Ruhla nello studio di Ventura a Castelfranco Veneto: gli stessi delle bombe dei treni e di piazza Fontana. A nessuno viene in mente che tutti gli ufficiali incaricati di far luce sulla strage di Milano, piazza della Loggia e l’attentato alla stazione di Bologna, avevano in tasca la tessera P2, rete che ancora avvolge i misteri d’ Italia.
Ho incontrato Ventura tre volte. Nel ’70 guardavo la sua barba nera dal banco degli imputati: querelato da Freda e Ventura assieme a Carlo Rossella (che non era il Lord Byron della mondanità berlusconiana: tessera Pci e capelli sciolti sulle spalle come Kocis, l’indiano di Hollywood). Non sopportavano le nostre inchieste. Ma poi li mettono in galera e il processo finisce. Quando sedeva alla cassa della prima pizzeria di Buenos Aires, pago il conto e gli ho ricordato chi sono. Ed è scoppiato: «Vola via altrimenti ti faccio buttar fuori a calci», come per dire: non mi sporco i piedi. Nel 2008 Ventura attraversa in carrozzella i tavoli di Filò. I suoi occhi mi sfiorano senza rancore, fantasma senza memoria. Se ne è andato con la sua brutta storia. Sopravvive l’elenco dei morti, ombre fastidiose. Le ha raggiunte.