Bologna vive la triste sorte di un simbolo che da tempo non corrisponde più al suo passato. Ciò che sta accadendo va ben oltre il profilo penale delle accuse che hanno portato alle dimissioni del sindaco: evento di per sé storico, mai accaduto in 65 anni di vita democratica. E se è vero che si tratta di accuse che non hanno a che fare con il funzionamento del Comune, ma con il ruolo svolto da Flavio Delbono quando era vicepresidente della Regione, resta la sostanza: la città si ritrova senza sindaco e con indagini che demoliscono ogni “diversità”, l’ormai presunta superiorità morale della sinistra. Persino dall’interno del Pd si levano voci preoccupate, che evitano di minimizzare la portata dello scandalo ad affare “sessuale”, e alludono a episodi collocabili nel quadro di un “sistema di potere”; riveste particolare gravità la questione dei contratti e degli appalti concessi dal CUP – azienda pubblica partecipata dalla Regione – a favore della ditta di un amico del sindaco.
Ora, Delbono risulta indagato per peculato, abuso di ufficio, truffa aggravata ai danni della Regione, e per aver fatto pressioni su testimoni nell’inchiesta che lo riguarda. Insufficienti controlli amministrativi, vita privata confusa con ruoli pubblici, persone spostate da un ufficio all’altro come soprammobili, bancomat a cui attingere liberamente, frequentissime trasferte in Bulgaria, incontri furtivi, assessori usati come intermediari, buste piene di soldi in contanti, promesse di una migliore soluzione lavorativa in cambio del silenzio, lettere fatte a pezzi e gettate nel cestino, poi ricomposte come armi di ricatto… Siamo dalle parti della commedia all’italiana, se ne potrebbero ricavare spunti per il prossimo cinepanettone: ma ci vorrebbe Almodovàr per trattare degnamente una storia così grottesca.
È il caso di ricordare che il Pd non ha mai chiesto le dimissioni del sindaco. Anzi, mentre lo scandalo stava montando, il segretario del Pd bolognese diceva che il sindaco era già stato assolto dagli elettori. Dal gossip politico, abbiamo poi ricavato che molti sapevano (e hanno preferito girare la testa dall’altra parte) e infine Delbono è stato spinto a dimettersi tramite telefonate riservate. Da quel momento l’unica preoccupazione del Pd è stata quella di minimizzare la gravità dell’accaduto, riducendo il tutto alla categoria del “sexgate” ed evitando di mettere in discussione le logiche alla base di quella candidatura e il significato dei comportamenti per cui il sindaco ha dovuto dimettersi. Quello che è stato definito come “il collasso dell’etica pubblica”. Per la sinistra bolognese, una nuova, bruciante delusione, che va a sommarsi con quella prodotta dai cinque anni di Cofferati.
Il danno politico è incalcolabile (facile prevedere che si riverberà nelle astensioni al voto per le Regionali). Eppure, per lunghe settimane, il Pd non ha fatto altro che dire: “Bologna non merita il commissariamento”, trovando il miglior alleato nel Collegio Costruttori, terrorizzato dal freno alle “grandi opere”. Resta avvolta nella nebbia la notte del 5 febbraio, quando Delbono stava per ritirare le dimissioni (assessori convocati via sms, poi la riunione saltò). Persino il caporedattore bolognese di «Repubblica» – giornale che ha tenuto gli occhi chiusi piuttosto a lungo – ha avanzato pesanti interrogativi sui rapporti del sindaco con le imprese di costruzioni legate alla Curia bolognese.
Lo scioglimento del consiglio comunale a sette mesi dall’insediamento e l’arrivo del commissario prefettizio, Anna Maria Cancellieri, resta un trauma di difficile elaborazione. Anche perché i tempi delle nuove elezioni restano vaghi, e la durata del commissariamento può proseguire per 13-14 mesi, se il Parlamento non approverà una Legge ad-hoc. Si fosse votato a fine marzo, il Pd – che Romano Prodi non ha voluto soccorrere, respingendo le pressanti richieste di candidatura – avrebbe senz’altro concesso le “primarie di coalizione”, chiamando a raccolta gli alleati maltrattati un anno prima.
La si può chiamare “questione morale”, ma in realtà si tratta di questione democratica, perché i partiti hanno requisito le chiavi della democrazia rappresentativa, e quanto più la loro vita interna si è fatta asfittica, tanto più pretendono l’esclusiva nella selezione delle cariche pubbliche. Un circolo vizioso che ha progressivamente ridotto l’autorità morale delle classi dirigenti: non a caso la categoria della “casta” si è abbattuta anche sui gruppi dirigenti della sinistra. È ormai accertata un’estrema disinvoltura nell’esercizio del potere, e l’occasione di questo fragoroso fallimento dovrebbe servire a ripensare alle modalità di selezione dei gruppi dirigenti. Paradossale è il fatto che le voci più critiche – quelle che hanno posto il tema del “sistema di potere” e della necessaria discontinuità con le classi dirigenti degli ultimi dieci anni – siano venute dall’interno del Pd. Un partito che, almeno a Bologna, è abituato a recitare molte parti in commedia.
Dopo lo scioglimento di giunta, consiglio comunale e consigli di quartiere, un gruppo di “autoconvocati” bolognesi, variamente di sinistra, ha lanciato un appello. Obiettivo: costituire un luogo pubblico, un appuntamento stabile che sia di riferimento per affrontare i problemi della vita cittadina. Dopo una serie di assemblee molto partecipate, questo luogo pubblico è stato chiamato “Consigli fuori dal Comune”.
Sono all’opera alcuni gruppi per preparare e convocare questi “Consigli”, precisando le forme di un’azione politica finalizzata a coinvolgere i bolognesi in un percorso partecipativo. Al termine del quale, fra alcune settimane, l’impegno preso in assemblea è quello di assumersi la responsabilità di avanzare una proposta elettorale alla città. In estrema sintesi, l’alternativa appare quella di stare dentro il recinto delle “primarie di coalizione”, indicando un proprio candidato, oppure costruire una soggettività esterna a quel recinto, presentando una lista civica e un candidato-sindaco.
Gli autoconvocati si sono dati un nome (“Io ci sto”) e un sito (http://iocisto.ning.com/) dove scambiarsi informazioni e proposte. Fin dall’inizio hanno espresso un giudizio molto critico sui partiti a sinistra del Pd; in un loro documento sta scritto: “se la sinistra, a Bologna, è divenuta quasi irrilevante, una delle cause è la sua frammentazione; un’altra sta nel comportamento adottato da gruppi dirigenti che, pur di preservare il loro piccolo potere di contrattazione (con il Pd) hanno fatto fallire qualunque ipotesi unitaria. Perciò, la credibilità di una nuova proposta politica comincia dalle persone che la avanzano”.
L’intenzione è rivendicare pari dignità fra partiti, reti, movimenti e associazioni di cittadini nel determinare la traiettoria del percorso politico che occorre aprire nella sinistra bolognese, se si vuole affrontare alla radice la gravità della crisi. Senza pratiche politiche nuove, aperte e inclusive, non sarà possibile raccogliere proposte, energie, entusiasmo, fino a definire un’altra idea di città, in grado di non negare i conflitti, combattere le paure, inventare occasioni di convivenza civile.
Come altre esperienze di cittadinanza attiva, “Io ci sto” muove dalla convinzione che nelle pratiche politiche autenticamente democratiche la conclusione del percorso sia nelle mani di chi partecipa, non predefinita da qualcuno che pretende di guidare gli altri. In questi ultimi mesi, anche a Bologna si sono manifestati movimenti per la difesa della Costituzione e della libertà di informazione, per il rilancio della scuola pubblica, per i diritti dei migranti, per una nuova generazione di diritti civili fondata sulla piena laicità dello Stato, per una gestione pubblica dei beni comuni, per la difesa del territorio dal consumo scriteriato e per la qualità dell’aria, per una diversa legislazione del lavoro che consenta ai giovani di uscire da una perenne precarietà. Questi movimenti hanno imposto all’attenzione – prima e persino contro le astratte priorità dei partiti – una lettura dell’Italia carica d’indignazione e in grado di cogliere le cause e le responsabilità di vecchie e nuove ingiustizie.
Intorno a queste idee, “Io ci sto” lavora per far nascere una nuova aggregazione a sinistra. Nuova, accogliente, coinvolgente, capace di attivare luoghi di discussione e di socialità. Di indicare una prospettiva di governo e ritrovare una connessione sentimentale con la città. Di innescare un’autentica rigenerazione della sinistra bolognese.
[ringraziamo Chiara Tolomelli per le foto]
Rudi Ghedini lavora presso l'Assemblea legislativa dell'Emilia-Romagna. Dal 1984 al 1990 ha lavorato come funzionario del PCI, e poi alla redazione dell'Unità. Dal 1987 al 1995 è stato consigliere comunale di Bologna. Nei primi anni Novanta fu tra i promotori delle riviste "Opposizioni" e "Nunatak". Dal 1995 al 2003 ha diretto "Zero in condotta". Ha collaborato con "Rendiconti" (rivista letteraria diretta da Roberto Roversi), "Linea Bianca" e con il magazine on-line Pickwick.it. Attualmente scrive per il settimanale "Carta" e per il "Guerin Sportivo" e ha pubblicato alcuni interventi su "Le Monde diplomatique".