Nostri soldati continuano a essere uccisi in Afghanistan e, giustamente, molti si chiedono che cosa stiamo a fare in Afghanistan e perché non ce ne torniamo a casa, nonostante il rischio di passare per codardi e inaffidabili. La risposta ufficiale è che quei ragazzi sono morti perché l’Italia deve lealmente onorare gli impegni che ha in quanto stato membro della NATO, per cui, la domanda pregiudiziale che ci si dovrebbe porre non è se ci si debba unilateralmente ritirare dall’Afghanistan, ma che cos’è la NATO oggi e perché ne siamo membri.
Noi cittadini siamo talmente abituati a non pretendere risposte a certe domande (addirittura non sappiamo più neppure farle!) e gli squallidi membri del nostro attuale, impresentabile governo, sono più abituati a discutere di volgarità che di politica vera, per cui nessuno ha mai dedicato un minimo di attenzione a questo problema. Quando il regime sovietico metteva spavento per la sua vocazione imperialistica e la sua potenza militare, le potenziali vittime di un attacco militare sovietico, cioè le nazioni del mondo libero, decisero di unirsi in una solida e bene organizzata alleanza militare a scopo difensivo che ci mettesse in condizioni di contrastare efficacemente un eventuale attacco militare sovietico e, così, nacque la NATO. In questa ottica, dare agli Stati Uniti d’America la direzione tattica e strategica delle forze armate dei Paesi membri della neonata alleanza fu una decisione di una logica inevitabile, dato che erano solo gli Stati Uniti a possedere un effettivo deterrente ad un attacco atomico.
Oggi, l’impero sovietico non esiste più e l’Occidente non corre più alcun rischio di essere attaccato da eserciti moscoviti con armi atomiche per cui i programmi antimissilistici che Bush voleva imporci non avevano alcuna giustificazione strategica, dettati come erano soltanto dai suoi debiti elettorali nei confronti dell’industria bellica statunitense, che richiedeva a gran voce il suo tornaconto miliardario.
L’assenza del pericolo sovietico rende la NATO assolutamente obsoleta e inutile, per cui, oggi, gli eserciti europei messi agli ordini della NATO servono solo e soltanto come economica e bene addestrata carne da cannone a disposizione della politica statunitense. La situazione geopolitica del mondo di oggi, in cui l’Unione Europea è, almeno potenzialmente, uno dei più importanti protagonisti, consiglia ben altro, anche se nessuno ne parla!
Un meccanismo comunemente osservabile nello studio della storia è che quando stati si consociano a scopo collaborativo perché condividono dottrine sociali, economiche e morali, la loro alleanza si dota sempre di una comune forza militare ma, misteriosamente, questo non avviene nell’Unione Europea, dove tutti i governi sembrano mesmerizzati e condizionati dalla loro appartenenza alla NATO e nessuno prova a pensare autonomamente, per cui è ora che qualcuno si faccia sentire perché gli stati membri dell’Unione Europea escano dalla NATO per formare un’alleanza militare europea, in cui invitare toto corde anche l’odierna Russia in via di democratizzazione e non più malata dell’imperialismo sovietico e che è, invece, la nostra naturale colonia commerciale capace di acquistare tutto quello che produciamo, pagandolo in energia e materie prime, un’alleanza che, oltretutto, combinando la potenza atomica di Francia, Inghilterra e Russia con le capacità industriali e scientifiche dell’Europa tutta, sarebbe la più potente alleanza del globo.
Immagino che subito qualcuno urlerà che così si indebolirebbe il fronte comune contro i massacri e gli attentati dei cosiddetti fondamentalisti islamici e lo farà senza rendersi conto, invece, che è proprio la perdente strategia, impostaci dagli Stati Uniti d’America, di combattere il fondamentalismo islamico con armi da fuoco che, invece, non solo ci priva di ogni più remota possibilità di successo, ma che rafforza e motiva con un senso di autodifesa il fondamentalismo islamico, rendendo il problema sempre più irrisolvibile, per il semplice motivo che non si può combattere una battaglia culturale con azioni militari.
Nella loro patetica incultura, Bush e compagni non hanno mai neppure pensato a combattere la giusta battaglia contro il fondamentalismo islamico sull’unico terreno in cui essa può essere vinta: quello della cultura religiosa e dell’esegesi coranica. Le moderne masse islamiche sono, purtroppo, cadute in un baratro di ignoranza agli antipodi della sofisticazione culturale, per esempio, del Califfato di Cordova, che le rende completamente incapaci di sottrarsi agli inganni di pochi spregiudicati e criminali agitatori che, in perfetta mala fede, presentano alle masse incolte come un dovere religioso l’esecuzione degli assassinii e degli attentati da loro ordinati per i loro loschi fini politici, contando sul fatto che, queste masse incolte, illetterate e completamente ignare dei veri principi dell’etica coranica, non si renderanno mai conto di essere usate per volgari e criminali scopi di potere personale.
Mi spiego meglio per chi non si è studiato il Corano e non conosce il vero insegnamento di Maometto. Secondo il Corano, una guerra è giusta solo se combattuta in difesa della propria umma (comunità, famiglia, patria) e della propria religione, ma un soldato che stia combattendo questa guerra giusta, secondo il Corano, non può colpire un soldato nemico disarmato e, soprattutto, non può arrecare danni alla vita ed alle proprietà dei civili, cioè dei non combattenti, anche se facenti parte del popolo nemico!
Alla luce dell’etica coranica, per esempio, i bombardamenti strategici delle città nemiche eseguiti sistematicamente dai popoli cristiani coinvolti nell’ultima guerra mondiale sono rigorosamente vietati. Per il Corano, il suicidio è sempre haram, cioè, vietato senza eccezione alcuna, per cui, quando Osama Bin Laden dice ai suoi utili idioti di imbottirsi di esplosivo e farsi esplodere in un supermercato di una città che lui considera nemica, dà due insegnamenti assolutamente blasfemi e contrari all’etica coranica, per cui, se gli islamici avessero ancora un califfo (capo religioso, politico e militare) come negli anni immediatamente dopo la morte di Maometto, Osama e i suoi compari sarebbero ipso fatto giustiziati per blasfemia. Il fatto che i taliban fondano finanziariamente la loro guerriglia sulla vendita di stupefacenti costituisce di per sé un ulteriore motivo perché essi siano impresentabili alla luce dell’etica islamica! In altre parole, il fondamentalismo islamico sta al vero Islam, come i roghi delle streghe stanno al vero Cristianesimo! Quindi, considerando quanto detto, una strategia che possa avere successo contro il fondamentalismo islamico non si deve fondare sulle immense spese militari su cui essa viene oggi fondata dall’insipienza statunitense, ma si deve valere di schiere di competenti maestri coranici capaci di illuminare le masse islamiche e permettere loro di conoscere meglio i veri principi etici della loro religione.
Questo concetto dell’inutilità delle armi da fuoco e degli eserciti in una battaglia di cultura andrebbe applicato specialmente al grosso problema dell’Afghanistan, un popolo che mai nella storia è stato soggiogato da un esercito straniero, sia per via della sua mentalità, sia per la geografia del Paese. C’è una strada maestra per riportare la pace in Afghanistan che, misteriosamente, nessuno pensa di considerare: una volta chiarito qual è il vero insegnamento coranico, bisognerebbe lasciare che i rappresentanti tribali delle differenti etnie afghane si riuniscano, secondo le loro antiche tradizioni, in un’assemblea costituente per liberamente eleggere il loro capo di stato e per deliberare sulla organizzazione statale che preferiscono, come hanno sempre fatto con successo durante tutta la loro storia.
Si può obiettare che i taliban non sono un’etnia, ma una specie di setta religiosa autoreferenziale, senza un vera filosofia ed una vera teologia su cui fondarsi, una setta tenuta in vita da poteri estranei alle vicende afghane ed estranei alla teologia islamica, oscuramente connessi con gli intrighi della politica interna pakistana e, quindi, sfuggirebbero alla definizione di legittimi membri dell’assemblea costituente sopra menzionata, ma questa sarebbe un’obbiezione solo formale e di scarso valore procedurale, perché i taliban sono solo quattro gatti urlanti sui tetti che fondano la loro influenza sull’ignoranza teologica delle masse afghane e sarebbero immediatamente messi a tacere e neutralizzati dai legittimi poteri tribali della tradizione afghana, nonostante la loro potenza finanziaria fondata sul narcotraffico.
Tutto questo, però, non può essere neppure tentato da noi europei se continuiamo a fornire truppe coloniali al comando statunitense della NATO, se continuiamo a sottostare ai pazzi ordini di Washington secondo cui basta organizzare in Afghanistan delle presunte libere elezioni per far eleggere capo dello stato, a forza di brogli elettorali, un ex impiegato dell’industria statunitense.
Prima di imporre all’Afghanistan il tipo di democrazia rappresentativa a cui siamo abituati noi, dobbiamo lasciare libera di evolversi la loro democrazia tribale e mai dimenticare un fatto troppo spesso ignorato da europei e da americani: i popoli che sono ancora organizzati in tribù e cabile non sono in antitesi con i nostri principi fondamentali di democrazia, perché il capotribù, in Africa, come in Asia (sono stato quasi 40 anni in Africa e conosco bene gran parte dell’Asia), non governa con la prepotenza di un dittatore, fondata sulle armi della sua polizia, ma governa interpretando il libero consenso della tribù, in una forma di democrazia diversa dalla nostra, ma non per questo meno vera e meno rispettabile.
A questo punto, credo che si debba fare anche un altro tipo di commento. Un soldato, per combattere bene, ha bisogno di una motivazione ideale, fatta di amor patrio Il mio nonno materno ha combattuto sul Pasubio durante la I Guerra mondiale e un suo ufficiale subalterno morì in un assalto alla baionetta di una postazione austriaca. Questo giovane soldato scriveva poesie e i suoi colleghi, in sua memoria, le hanno poi pubblicate postume ed io ho trovato la pubblicazione nella biblioteca di mio nonno. Non sono composizioni di grande valore letterario, ma a leggerle ci si commuove per l’intensità del loro amor patrio e per il suo incontenibile e romantico desiderio di offrire la sua vita alla Patria. A margine ho trovato una nota piena di invidia, scritta da mio nonno a matita: ‘Perché lui sì e io no?’
Ve lo immaginate un giovane soldato americano, figlio di una famiglia senza mezzi economici e che si è arruolato perché l’esercito gli ha promesso di pagargli l’università una volta congedato, che desidera romanticamente di morire da eroe in battaglia affinché gli azionisti di Halliburton vedano aumentati i loro dividendi annuali?
Questo stato di cose ha anche una ricaduta sulla competenza di questi soldati. Tutti ricordiamo il triste episodio dell’agente segreto italiano che, dopo essere riuscito a liberare una giornalista, insensatamente, non si è fermato ad un posto di blocco americano ed è rimasto ucciso dalle inconsulte raffiche di mitra sparate ad altezza d’uomo dai soldati americani. Se i soldati di quel posto di blocco fossero stati minimamente competenti, uno di loro si sarebbe sdraiato per terra, avrebbe mirato alle gomme con la canna del fucile parallela al terreno e, con due tiri facilissimi, avrebbe bloccato il veicolo, perché con un semplice fucile a ripetizione, in 5 secondi avrebbe fatto scoppiare entrambi i pneumatici posteriori, senza uccidere nessuno e senza rischiare di far esplodere il veicolo, se carico di esplosivo! In Africa, sono stato assalito due volte da bufali inferociti, uno ferito di striscio al collo da un turista danese e che aveva, il giorno prima, massacrato un africano che, per caso, si era trovato in boscaglia al posto sbagliato nel momento sbagliato ed ho imparato che non è la densità di fuoco a risolvere il problema, ma la precisione del tiro. Possibile che l’addestramento dato a quei soldati non avesse loro insegnato questo elementare principio?
Alberto Bencivenga è un chirurgo italiano con molti anni di esperienza clinica e di insegnamento universitario a Tubinga (Germania), Mogadiscio (Somalia), Chur (Svizzera) e poi a Nairobi (Kenya), dove ha ottenuto riconoscimenti a livello internazionale. Una volta raggiunta l'età della pensione è rientrato a Roma e riflette sullo stato di questa povera nazione.