Siamo in guerra anche se il presidente Napolitano non lo sa. Cento anni dopo i massacri del primo colonialismo, gli italiani tornano a bombardare la Libia, Tornado al posto dei cannoncini. Prevedibili e “dolorosamente necessari” gli effetti collaterali: donne, ragazzi, bambini, come in Iraq, come in Afghanistan. Morti inconsapevoli, scudi umani dietro i quali si nasconde Gheddafi nell’illusione di fermare la fine del regime: 42 anni di dittatura farneticante. Comunque vada è finita, non importa quanto lunga l’agonia. Propaganda pacifista? C’è molta verità. Noi paesi civili siamo lì per fermare il massacro di Bengasi dove la rivoluzione della generazione internet prova ad aprire la speranza alla normalità sempre negata. Ma dietro e accanto ai ragazzi di buona volontà, chi c’è e quali sono gli interessi? Mosaico frastagliato, nessuno sa rispondere mentre al Cairo si é votata la nuova costituzione e a Tunisi balbetta una fragile democrazia. A mani nude hanno rovesciato gli uomini forti fino a ieri coccolati dai paesi che adesso bombardano la Libia dei baciamano di Berlusconi e delle analisi che ogni giorno cambiano nelle parole del Frattini 1, Frattini 2 (mesi fa sarcastico con la sinistra che “ignorava complessità e aspirazioni pacifiche del mondo arabo”); amico che portava in palma di mano un “leader indispensabile come Gheddafi” frettolosamente disprezzato dal Frattini 3: assicura che l’Italia lo combatterà in prima linea per la difesa dei diritti umani.
A parte il teatrino delle comparse, il dubbio che inquieta riguarda il destino di qualche milione di persone: dopo le armi, quale Libia sopravviverà? Soprattutto: chi controllerà il petrolio? Ancora nebbie anche se una certezza c’é: gli Stati Uniti rivogliono mettere piede in Africa partendo dall’Africa tradizionalmente europea: Algeria, Tunisia, Egitto. Due le urgenze di Washington: controllare gas e petrolio che fanno girare l’Europa vuol dire controllare lo sviluppo di un concorrente non irresistibile ma sempre fastidioso. Ma la paura è un’altra: quelle mani della Cina sul continente nero. Pechino avanza e gli Stati Uniti non possono osservare immobili da lontano. Ecco la “non guerra” alla Libia. Le guerre degli ultimi trent’anni si sono combattute per esportare la democrazia attorno all’oro nero. Iran-Iraq, 1980-1988. Saddam Hussein al quale la Washington di Reagan assicurava armi, consiglieri militari, occhi della Cia e petrolio da vendere alle multinazionali mentre i suoi pozzi bruciavano sotto i missili iraniani. L’Arabia Saudita anticipava le consegne. Iran isolato “per sempre” nei discorsi del Saddam che abbatteva gli aerei passeggeri: nessuno straniero doveva arrivara a Teheran legata al filo sottile della Lufthansa. Circumnavigazioni interminabili per raggiungere la capitale del Khomeini le cui prediche dall’esilio avevano rovesciato lo Scià, sovrano a noi devoto, vacanze a Saint Moritz, eleganza impeccabile ma polizie feroci. A Saddam abbiamo affidato il compito di tamponare il pericolo dell’integralismo sciita, non importa come. Quando il suo gas nervino soffoca cinquemila curdi ad Halabja, provincia sul confine dell’Iran, Stephen Pelletier, ufficiale dei servizi segreti travestito da professore del War Army College, scrive sul New York Times che le sue indagini hanno accertato la responsabilità nel massacro del gas iraniano. Aria avvelenata da un cianuro sconosciuto agli iracheni. Insomma, chi riempiva gli arsenali di Baghdad sapeva di quali armi Saddam disponeva e si guardava bene dal mettere sulla graticola dell’indignazione internazionale l’alleato fedele. “Accusare il presidente Hussein di genocidio non é corretto: solo propaganda di chi vuole disinformare”. Nel processo che ha impiccato il dittatore, si proibisce ai suoi avvocati di presentare la testimonianza di Pelletier nel timore di rivelazioni imbarazzanti. Ecco perché Gheddafi dopo la morte dell’amico abbracciato e blandito quando governava, apre subito il cuore ai vincitori. Insomma, rais uomo di mondo che sa come va il mondo e si adegua.
Due guerre del petrolio in quindici anni. Gli anni diventano venti e le guerre diventano tre. Da una parte mussulmani seduti sul 75 per cento delle riserve mondiali; dall’altra le nostre soffici città. Per far girare benessere e automobili, per accendere la luce e i lampi dei computer, ci aggrappiamo agli approvvigionamenti che impongono di chiudere gli occhi e moltiplicare gli abbracci o fare la guerra quando i padroni vanno troppo in là. Con un tesoro di 46,5 miliardi di barili, la Libia é la più importante potenza petrolifera del continente africano, due volte le riserve degli Stati Uniti. Ecco perché appena il Gheddafi impaurito dalla fine di Saddam ammette la responsabilità dell’aereo passeggeri abbattuto sul cielo di Scozia, e chiede scusa e rimborsa le famiglie con la pietas del peccatore redento, da Blair a Sarkozy tutti ai suoi piedi sia pure con la dignità di primi ministri al cospetto un primo ministro nababbo. Solo Berlusconi lecca le mani. E Gheddafi diventa speranza della democrazia. Distrugge le armi proibite (sarà vero?), compra ordigni dell’ultima generazione per rimpiazzare le chincaglierie dei missili senza fiato dei soviet. Ma subito riempie gli arsenali con le ultime novità, ultissimi acquisti mentre si agitano le piazze di Tunisi, poche settimane fa: 40 tonnellate di missili di fabbricazione russa, spedizioniere Aleksandr Lukashenko presidente a vita della Bielorussia, ultimo paradiso comunista d’Europa, protetto da Putin. Insomma, girotondo degli amici di Berlusconi. Bisogna dire che le armi sono il salvagente delle economie in affanno. La crisi degli Usa dopo la ritirata dal Vietnam dipendeva dalla paralisi dell’industria pesante: mancavano le guerre, il Pil imponeva di inventarle e le amministrazioni repubblicane si sono impegnate nel medioriente del petrolio Iran-Iraq per far respirare borse in agonia e rinvigorire presidenti che non sapevano cosa rispondere alle folle degli scioperi. Oggi Iraq e Afghanistan sono investimenti improduttivi e la nuova combinazione guerra e petrolio può rallegrare affari e governi in difficoltà. Sarkozy parte all’attacco alla vigilia delle elezioni amministrative, ma le prime bombe francesi su chi assedia Bengasi non incantano gli elettori: il partito del presidente sotto di dieci punti ai socialisti che trionfano. Ma Sarkò pensa alle presidenziali del 2012: guidare assieme a Londra l’assalto al petrolio libico, potrebbe salvarlo miracolosamente dal naufragio annunciato. È stato il primo a riconoscere (con tanto di ambasciata) l’autorità provvisoria di Bengasi, chiamiamola così. Ha raccolto a Parigi i grandi del mondo scuotendo la vergogna di Berlusconi ed ha scatenato i suoi caccia bombardieri con due ore di anticipo rispetto l’ora concordata con gli Stati Uniti. Il Pentagono si arrabbia ed intiepidisce. Eppure anche i socialisti francesi hanno un rigurgito di grandeur e si accodano per non perdere il treno degli elettori. La Libia diventa il termometro delle nostre ambizioni e di una tranquillità energetica che il nucleare sfiduciato sta minacciando. E la gente che vive attorno ai pozzi? Deve portare pazienza nell’attesa di una democrazia che sarà autoritaria, contesa tra l’Europa sulla porta di casa, Usa che non vogliono perdere il treno, Russia e Cina preoccupate per il cliente perduto. E già protestano assieme alla Lega Araba: dovevamo solo difendere la vita di tante persone, non bombardare la vita di altrettante persone mentre l’Onu ammonisce: non é in discussione il governo Gheddafi ma la possibilità di una parte dei cittadini di manifestare il disaccordo. Gli Stati Uniti si allontanano, Pentagono che rimpovera il dilettantismo di certi premier europei. Libici ancora soli tra una bomba buona e una bomba cattiva. Devono portare pazienza, la storia del petrolio é sempre così.