In tempi di tagli alla cultura e alla pubblica istruzione, viene voglia di ripartire dall’ABC… Voce del verbo riformare. Dal latino “re-formare”: formare di nuovo, ridurre in miglior forma. Se c’è una parola che ben rappresenta la presente schizofrenia della politica e della società italiane, questa è certamente “riformismo”. Alcuni, abbandonato ogni pudore, sostengono addirittura che l’origine delle nostre disgrazie risale a dieci anni fa, quando la Bicamerale “fondata sul ricatto” si arenò e, con essa, affondarono le Grandi Riforme dalemiane. In un’altra vita, l’europarlamentare franceschiniano Sergio Cofferati ebbe a definire riformismo “una parola malata”. Destino di ogni vocabolo abusato, ammalarsi. In effetti, esaurita ogni velleità rivoluzionaria e accomodati nel salotto della postmodernità, per i partiti europei autodefinirsi riformisti è un po’ come chiamarsi “democratici”: excusatio non petita.
A dire il vero in Italia di buone riforme, nella Seconda Repubblica, se ne sono viste poche. Dopo 15 anni prevalgono nettamente le riforme discutibili. Alcune purtroppo andate in porto (2001: riforma del titolo V votata a maggioranza dal centrosinistra col governo Amato in scadenza); altre fortunatamente respinte al mittente dai cittadini (2005: riforma costituzionale confezionata da Berlusconi e Bossi con la preziosa collaborazione, è bene ricordarlo, di Fini e dell’allora fedelissimo Casini).
Il 22 maggio 1947, durante i lavori dell’Assemblea costituente, Costantino Mortati – grande costituzionalista calabrese, cattolico; dimenticato dai democratici di centro, di destra e di sinistra – propose un emendamento (respinto) all’articolo 49, quello che definirà il ruolo dei partiti: «Tutti i cittadini hanno diritto di riunirsi liberamente in partiti che si uniformino al metodo democratico nell’organizzazione interna e nell’azione diretta alla determinazione della politica nazionale». Premesso che l’emergenza democratica italiana non si risolve certo con una riforma costituzionale (una saggia manovra economica, di questi tempi, parrebbe decisamente più urgente e feconda), diciamocelo: chi sarebbero, oggi, i padri e le madri costituenti di indiscusso prestigio, degni di “ridurre in miglior forma” un testo condiviso da Dossetti, Togliatti, La Pira, Calamandrei, Terracini? Ma mi faccia il piacere, esclamerebbe il principe De Curtis minacciando scappellotti.
In ogni caso, se l’incontinenza riformatrice dei “professorini” contemporanei dovesse disgraziatamente riprendere quota, meglio sarebbe convocare una seconda Assemblea costituente. Sperando che, nel caso, gli ultras del riformismo dialogante si occupino anche di politica, non solo di giustizia. Con buona pace dell’ex magistrato Violante e della sua mitica bozza.
Sull’articolo 49, per esempio, varrebbe piuttosto la pena rileggersi i lavori della commissione Bozzi (1983-84): «La legge disciplina il finanziamento dei partiti, con riguardo alle loro organizzazioni centrali e periferiche e prevede le procedure atte ad assicurare la trasparenza ed il pubblico controllo del loro stato patrimoniale e delle loro fonti di finanziamento. La legge detta altresì disposizioni dirette a garantire la partecipazione degli iscritti a tutte le fasi di formazione della volontà politica dei partiti, compresa la designazione dei candidati alle elezioni, il rispetto delle norme statutarie, la tutela delle minoranze».
Michele Ainis, ordinario di diritto costituzionale all’Università Roma Tre, ha esposto brillantemente in un recente pamphlet [“La cura”, Chiarelettere] una lucida diagnosi del paziente Italia – «il servilismo è ormai la malattia etica degli italiani» -, proponendo una «terapia d’urto» che preveda, tra l’altro, una legge sui partiti e sui sindacati («nessuna regola giuridica ne garantisce la democrazia interna»).
Trasparenza, controllo, rendicontazione: se il Parlamento, almeno dopo tangentopoli, avesse costretto i partiti italiani a rispettare questi tre parametri – pena l’impossibilità di accedere a rimborsi elettorali e/o il divieto di presentarsi alle elezioni – forse oggi non saremmo costretti ad auspicare l’avvento di una Terza Repubblica. Né, tanto meno, un ritorno alla Prima.
Mentre i partiti italiani continuano a parlare di riforme (senza farle), forse sarebbe opportuno discutere, pubblicamente, di come e con quali strumenti riformare – “dal basso”? – la politica. Questa politica. Questi partiti.
Riccardo Lenzi (Bologna 1974) è redattore e free lance. Ha scritto due libri: "L'Altrainformazione. Quattro gatti tra la via Emilia e il web" (Pendragon, 2004) e, insieme ad Antonella Beccaria, "Schegge contro la democrazia. 2 agosto 1980: le ragioni di una strage nei più recenti atti giudiziari" (Socialmente, 2010)