Giorgio Bocca, la “provocazione” di piazza Fontana
27-12-2011
di
Ippolito Mauri
Quattro ore dopo le bombe di piazza Fontana (12 dicembre 1969) nella stanza di Italo Pietra, direttore del Giorno, i cronisti di ritorno da una Milano impaurita dove avevano provato a capire cosa era successo, raccontano storie e sospetti, testimonianze parziali dalle conclusioni che si somigliano. Scontentano Angelo Rozzoni, vice di Pietra, maniche rimboccate, matita in mano davanti a un foglio che resta bianco se non per due domande senza risposta: chi è stato e perché. “Non è facile”, risponde Giorgio Bocca. “Non stasera, forse fra qualche anno riusciremo a spiegare quali ombre si agitano dietro i terroristi. Forse… Sta per cominciare qualcosa che non abbiamo saputo immaginare o che portavamo dentro come sospetto terribile quindi impossibile secondo il nostro ottimismo”. Pietra lo interrompe. “E’ anche la mia angoscia, ma adesso bisogna pensare al titolo: fra due ore il giornale deve essere in viaggio sui camion per Roma…”. Camion, perché la teletrasmissione restava una fantasia irraggiungibile. Bocca sospira: “Lo dico solo per me, non so se può reggere la prima pagina: un’infame provocazione”. Diventa il titolo che sembra scritto l’altro ieri quando abbiamo ricordato i 42 anni del primo massacro di stato. 42 anni e Bocca se ne è andato senza risposta.
Noi che venivano dalla provincia o dalla Milano lontana dai salotti – Natalia Aspesi, Tiziano Terzani, Gian Paolo Pansa, Marco Nozza, tanti – abbiamo imparato il mestiere con la felicità di lavorare attorno a testimoni che stavano riscrivendo la storia sociale, politica e culturale del Paese. Arbasino, Gianni Brera, Pietro Citati, Pietro Bianchi e Roberto De Monticelli, povero Bob che aveva demolito una commedia di Montanelli, quel “Kibbutz” non gli era piaciuto, e l’Eni, proprietaria del giornale, lo sospettava di aver scatenato la reazione di Montanelli: articoli al cianuro sullo strapotere di Enrico Mattei. Le inchieste di Bocca hanno subito diviso le generazioni. I giovani si affacciano felici dalle finestre che aprivano sulla nuova realtà mentre scontentavano non solo la borghesia della conservazione, ma il rispetto che incipriava un’opinione pubblica educata dal fascimo ad ammirare qualsiasi potere. Soldi, soprattutto. E quando Bocca stringe il racconto di Bergamo in sole tre P (Preti, Puttane, Pesenti), la reazione della vecchia Italia è furibonda. Lo abbianmo ricordato qualche tempo fa. Ero andato a trovarlo fra i libri che ordinava in scaffali ordinatissimi: scivolano e spariscono come contenitori di farmacie. Dovevamo parlare di un saggio di Ettore Masina, “L’airone di Orbetello, storia e storie di un cattocomunista”, definizione usata con disprezzo dai ministri craxiani sopravissuti alla corte di Berlusconi o dai Bondi ex comunisti e neo devoti impegnati a tagliare ogni rapporto tra passato e presente. Ebbene, il neologismo è uscito dalla macchina per scrivere di Bocca, metà anni’60 dopo essersi imbattuto nei giovani cattolici che crescevano sulle aperture conciliari rifiutando l’acquiescenza alla tutela economica e degli Stati Uniti. Bocca inaugura la definizione nella biografia di Togliatti. Craxi ne fa subito un cavallo di battaglia. “Con interpretazioni improprie: l’ho fatto solo per obbligo di sintesi, una berlusconata in anticipo, ma l’intenzione non era il disprezzo. Mi spiace si sia riversata con malizia su intellettuali la cui fede era profonda ma quel spalla a spalla coi comunisti dai quali li separava l’ideologia, lo confesso, è stata una sorpresa. Insisto: conversione confortante perché collaudata con naturalezza quando eravanmo sulle mon tagne della Resistenza: senza chiedere come preghi o cosa pensi abbiammo combattuto assieme fascismo e nazisti”. La nostalgia lo sfiora. “Guarda un po’ cosa salta fuori dopo tanti anni”.