Agnes Heller è una delle grandi voci della filosofia moderna. Nei manuali di storia del pensiero contemporaneo il suo nome campeggia al fianco dei classici. Molti ricordano il libro “La teoria dei bisogni in Marx”, che accese ampi dibattiti in Italia durante gli anni Settanta. Ma soprattutto di lei rimane il legame strettissimo con György Lukacs – di cui fu discepola e assistente – il filosofo ungherese e dirigente del partito comunista, che tentò di liberare il marxismo dalle catene dogmatiche. Agnes Heller sarà in Italia dall’1 al 3 novembre prossimi su invito del Centro per la Pace del Comune di Bolzano per presentare il suo ultimo libro “La bellezza della persona buona” (Edizion Diabasis).
Nata nel 1929 a Budapest in una famiglia ebraica, a 14 anni conosce l’inferno dei campi di sterminio (il padre morì ad Auschwitz). Sopravvissuta all’ondata antisemita si iscrive alla facoltà di filosofia di Budapest dove assiste alle lezioni di Lukacs. Insieme ad altri filosofi fonda la “Scuola di Budapest” di cui in poco tempo diventa la leader. Ma nel 1959 le teorie di Lukacs vengono condannate dal regime e la Heller è costretta all’esilio, prima in Australia e poi in America. Può rientrare nel suo Paese solo dopo la caduta del muro di Berlino. Ma ancora la sua presenza è ritenuta scomoda dal governo di destra in carica. La Heller è una delle anime della protesta che nei giorni scorsi ha portato centomila persona in piazza a criticare aspramente i provvedimenti liberticidi contro la libertà di stampa e il tentativo di “far fuori l’intellighenzia del Paese” attraverso rimozioni di incarichi importanti, come è accaduto per il direttore dell’orchestra dell’Opera di Budapest, Adam Fischer, o il direttore del Balletto, direttori di teatro: “Assistiamo – afferma la Heller – ad una Kulturkampf, ad una guerra contro gli intellettuali del Paese”.
Agnes Heller, pensa che le politiche repressive del suo governo possano espandersi in Europa?
Il rischio c’è. Il presidente dell’Ungheria, Viktor Orban, sta compromettendo alcuni diritti fondamentali, prima fra tutti il diritto di stampa, e lo fa attraverso una propaganda aggressiva che mira a imbavagliare i giornalisti e a fare in modo che scrivano solo ciò che preme al potere impedendo qualsiasi elemento critico. Non è soltanto un problema ungherese. Anche in Italia è in atto un tentativo del genere. E’ importante che questi virus non si diffondano. E per fare questo bisogna tenere alta e desta l’attenzione.
Proprio l’altro ieri settantamila persone sono scese in piazza a Budapest contro la censura. Quanto influiscono questi cortei sull’azione del governo?
La manifestazione non ha avuto una influenza diretta sul governo, ma è sicuramente positiva perché fa nascere una forza nuova che aiuta l’opposizione a premere contro le politiche repressive di questo governo. Ci sono legami con il movimento degli indignati che nei giorni scorsi è sceso in quasi tutte le piazze del mondo per dire no alle politiche economiche che impongono fardelli sempre più pesanti sui cittadini comuni.
In Ungheria il movimento degli indignados non ha attecchito. Questo è un movimento giovanile, rivolto soprattutto contro le banche. Il populismo del nostro presidente fa leva anche su questo malcontento. Infatti lui si fa paladino dell’anticapitalismo dicendo che non pagherà mai i debito contratti con le banche. Per ora le manifestazioni contro la legge bavaglio non hanno avuto connessioni con il movimento degli indignados.
Quale relazione corre fra la sua teoria dei bisogni e la crisi finanziaria internazionale?
La crisi finanziaria è un tormento che ha avuto un inizio e avrà una fine. Non è possibile vivere in perenne crisi. Si parla infatti di bolla speculativa. Non so che effetti ci saranno, ma prima o poi la crisi finirà. I bisogni invece ci sono sempre. Ci sono bisogni manipolati, indotti e ci sono i bisogni radicali quelli che accompagnano al vita di ciascun individuo. La riflessione sui bisogni è sempre attuale, anche se sono cambiate le condizioni rispetto a quando scrissi il libro in relazione al pensiero di Marx. Le grandi narrazioni non ci sono più. Siamo in un appendice della modernità che possiamo chiamare post-modernità. Ma i bisogni son sempre quelli.
Quanto ha pesato il suo essere ebraica nell’elaborazione del suo pensiero?
Più che le origini hanno pesato le esperienze. La mia famiglia era laica. Mio padre è sparito nell’inferno di Auschwitz. Eravamo vittime della persecuzione. A 14 anni sono finita nel braccio della morte a pensare giorno e notte quando sarebbe arrivata la mia ora. Poi è venuto il sistema sovietico e anche lì sono stata oppressa, al punto da dover uscire dal mio Paese per cercare rifugio in Australia. Queste due esperienze hanno influenzato tutta la mia vita e la mia opera.
Arturo Zilli, giornalista, lavora presso l'ufficio pubbliche relazioni della Caritas di Bolzano-Bressanone dal 2006 e collabora con Famiglia Cristiana e con Radio Sacra Famiglia curando la trasmissione "Avanti il prossimo".