Antonio Tabucchi, Viaggi e altri viaggi, Feltrinelli 2010
Affrontare il viaggio con un senso di curiosità, con il desiderio di confrontarsi col diverso è un’esperienza che i pendolari devono confinare entro i pochi giorni di ferie concessi dal lavoro. Nei giorni della vita quotidiana, il viaggio è un grigio rituale al quale ci si adegua, sperando anzi che non porti fastidiose novità. Ebbene, per non cedere al ritmico dondolio della carrozza che intorpidisce il corpo e rischia di impigrire la mente in pensieri angusti e concentrici, può essere utile questo nuovo libro di Tabucchi, deliziosa raccolta di articoli che apre piccoli oblò nei finestrini sporchi e appannati del nostro treno.
E allora lo sguardo, reso più attento dalla sensibilità ironica e colta dell’autore, può spaziare nell’infinito mondo, riconoscere luoghi già visti o trovare curiosamente famigliari posti sui quali non si è mai posato. Ma la peculiarità di questa “guida turistica” – che guida non è, e tantomeno per turisti – consiste nel condurre il lettore lungo due vie che corrono affiancate, ma si intersecano senza sosta: quella del viaggio in sé e quella delle letture che l’hanno anticipato, provocato, accompagnato. “I luoghi sono nomi, tappe. Ma quel che più conta è la civiltà del guardare, del rammentare, e del connettere i luoghi alla gente. L’andare e il sostare. Lo scoprire, insieme alla bellezza, la diversità del mondo.”
E allora, se sarà facile risentire i versi di Montale (ma anche la malinconia di De Andrè) aggirandosi per i caruggi di Genova, per molti sarà una sorpresa trovarsi in Svizzera, tanto spesso derisa per il suo ordine un po’ provinciale, in un angolo di vivacissima cultura cosmopolita, a pochi passi da Biel, città natale di Robert Walser. Oppure a Sète, in Linguadoca, per respirare i versi marini del borghese Paul Valéry, che lì è nato e ora condivide, non sappiamo con quanto entusiasmo, il suo museo con un altro concittadino, l’anarcoide Georges Brassens. E poi Parigi e Madrid, e Barcellona con la sua piazza del Diamante, che in un bel libro di Mercè Rodoreda, la maggiore scrittrice catalana contemporanea, non è più soltanto un luogo di passaggio per raggiungere il Parc Güell e lasciarsi stordire dalla magica follia di Gaudí.
E se l’Europa non basta, se non basta l’aspro fascino dei Carpazi, il sapore ancora quasi intatto di certi antichi villaggi di Creta (una meraviglia per il viaggiatore disposto a rinunciare per un po’ alle spiagge dell’isola e a addentrarsi fra i monti dell’interno), la dimensione onirica di Lisbona e dell’intero Portogallo – autentico e mai celato amore di Tabucchi e del “suo” Fernando Pessoa –, dove non si può sfuggire ai lacci della saudade, ebbene, se tutto questo non basta, si può tentare il volo verso altri continenti.
E camminare in compagnia di Borges per le strade di Buenos Aires (“non le avide strade scomode di folla e di trambusto, ma le strade svogliate del quartiere, quasi invisibili per l’abitudine, intenerite da penombra e da tramonto…”); o ammirare Kyoto, che alle sue straordinarie bellezze deve la salvezza negata a Hiroshima nel ’45; o perdersi nelle mille contraddizioni di una terra come l’Australia, dove città modernissime non sono riuscite a cancellare l’atmosfera misteriosa di Picnic a Hanging Rock. E poi gli Stati Uniti, l’Egitto, il Messico, l’India…
Il cartello che recita “Milano Lambrate” è un brusco risveglio. Ma il sogno è stato bello, e lascia un sorriso a mezze labbra e una certezza: “La letteratura – ha detto un poeta – è la dimostrazione che la vita non basta. È come il viaggio: è una forma di conoscenza in più. Molte cose ci possono bastare, e devono bastare, nella vita: l’amore, il lavoro, i soldi. Ma la voglia di conoscere non basta mai. … E poi l’ignoto ci spia sempre, e si presenta alla prima occasione”.
Magari – perché no? – fra le pagine del prossimo libro.
Federica Albini, laurea in filosofia. Ha insegnato negli istituti statali. Nel 1994 lascia il mondo della scuola per avventurarsi nell’editoria. È redattrice in uno studio editoriale. Vive a Piacenza, lavora a Milano.