Un altro anno è finito, un altro anno da fare. La memoria aiuta il cambiamento: scrivere non basta, bisogna stare dentro al lavoro sociale come 27 anni fa, quando eravamo i “Siciliani Giovani” di Pippo Fava.
Ventisei anni fa. come questi giorni, in cui le persone normalmente sono impegnate a guardare dentro le proprie cose, come nei giorni di fine anno. Riccardo, nella vecchia redazione de I Siciliani, sta scrivendo un volantino per organizzare la prima manifestazione del cinque gennaio. È rimasto solo l’intera giornata per finire il lavoro. Le mani sporche di inchiostro, la scrivania piena di tabacco, il telefono con cui di tanto in tanto telefona, altre volte squilla: è Claudio da rassicurare, è il professor D’Urso con cui prendere accordi per l’associazione, è il prete palermitano che fa proposte d’intervento. Lui, ascolta e ritorna sul volantino. Guarda di tanto in tanto, dalla porta a vetrate, alla stanza d’ingresso, la stanza dove si fanno anche le riunioni dei “Siciliani giovani”. Ventisei anni e adesso che la lotta alla mafia ci ha messo nelle vite di ora. Riccardo è nella sua casa a Milazzo e sta lavorando alle pagine settimanali di Ucuntu, regolarmente mi telefona per sapere a che punto siamo con i pezzi e con il lavoro a Catania. Mentre pensiamo a come preparare gli interventi per il cinque gennaio, ci sono altre dieci cose da fare, in cui spesso l’azione preminente non è scrivere ma stare semplicemente dentro il lavoro di aggregazione sociale, a Catania come in altre parti della Sicilia. È lavorare con il gruppo dei “Clandestini” di Modica; è “Librino” interpretata da Luciano, ma è anche guardare il lavoro della “Periferica”, e prestare attenzione al “Centro Iqbal Mash” e al loro lavoro ; è fare il giornale daegli insegnanti precari a Catania, è telefonare a quei due o tre preti dell’Isola che educano la gente alla antimafia, è chiudere il dossier sulla “Emergenza case”, senza dimenticarsi dell’Experia; è organizzare la festa di fine anno nel quartiere a San Cristoforo; è sentirci tra di noi, e portare avanti questa “memoria difficile”di Pippo Fava nelle nostre vite.
Con questa memoria portiamo avanti il “lavoro in corso” e tutto il resto, il pallone tirato ai ragazzini dei quartieri e l’informazione da passare in rete. La nostra memoria difficile fa il suo “lavoro in corso” nella stanza di Città Insieme a Catania in Via Siena 1. La nostra memoria difficile si rinnova ogni mercoledì sera alle venti e trenta quando Piero, Sonia, Luca, Giuseppe, Luciano, Massimiliano, Sebastiano, Enrico, Giorgio, Chiara lavorano insieme. Tutto quest’oggi e tutta questa memoria così importante e densa, ma anche così relativa e fragile, mentre pensiamo agli sguardi e ai dubbi, e al lavoro e alla fiducia di ognuno che porta con sé questa responsabilità di ricordare Pippo Fava. Come un girotondo incompleto in cui stiamo aspettando di toccare le mani degli altri compagni. Con questa “pazzia” che ci portiamo con fierezza siamo ancora lì, in quella stanza, a trovare le parole e ad aspettare.
(F.D’U)
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Il kitsch e la speranza
Catania è una città abbastanza kitsch, con professori settantenni che cercano di farsi le allieve promettendo bei voti, giudici che chiamano il comune per raccomandare le mogli e roba del genere. Parliamo della Catania “alta”, in realtà, quella che comanda: che è esattamente quella dei Vicerè di De Roberto o – più modestamente – dei film con Turi Ferro. Ogni tanto, anche, ammazza; ma più spesso è grottesca; questo mix di ridicolo e di feroce è il proprium di Catania e la differenzia – ad esempio – dalla solennità macabra di Palermo. Entrambe le classi dirigenti delle due città (e di altre che loro assomigliano, come Milano o Napoli o Verona) ambiscono a farsi modello nazionale. E in buona parte ci riescono: un Feltri, un Berlusconi, un Prosperini, non sarebbero mai potuti esistere se non si fossero incarnati prima, con anni e anni di anticipo, in Sicilia.
Poi c’è l’altra Sicilia, dei siciliani che stanno in basso, la gente che s’accapiglia e che lavora. Questa ha i suoi alti e bassi, come ne hanno il Veneto o l’Irlanda, ma nel complesso (ci vuol coraggio a dirlo in questo momento) è un paese civile, un po’ cialtrone ma umano, rozzo – specie in politica – ma dignitoso, vittimista oltre il lecito (il suo maggior difetto) ma buono, nelle emergenze, a sostenere i Garibaldi e i Falcone. Così, tutto sommato, non fu sbagliata l’idea, di tanti anni fa, di chiamarci semplicemente “I Siciliani”. Ma sì: diamo fiducia ancora, senza troppe illusioni ma con affetto, a questo nostro popolo, alla nostra gente. Lotteremmo lo stesso, anche se questa fiducia non l’avessimo. Ma l’abbiamo.
(R.O.)