Il tetto del mondo. Guardi la cartina del Nepal e l’occhio vaga di vetta in vetta, alla ricerca dell’Everest, il lembo di terra più vicino al cielo e chissà, forse, anche a Dio. Sfoglio le imprese folli ed eroiche, che, dagli anni ’20 del ‘900, hanno scalato i suoi fianchi, e penso all’Ulisse di Dante, spintosi oltre le colonne d’Ercole per sete di infinita conoscenza e spazzato via, nei gorghi del mare, dalle raffiche di vento di una montagna alta e scura. Così anche l’uomo, che, secondo la Genesi, fu creato superiore a tutte le altre terrene cose, ha provato e riprovato a inerpicarsi sin lassù, sull’ultimo gradino della scala, per cogliere, fra le gelide folate della sommità, quell’ineffabile destino di immagine e somiglianza col divino.
Ma più alta è la salita e più lunga è la discesa e, come raramente nella sua fiera storia, il Nepal degli ultimi decenni, in balia di una politica sgangherata e corrotta e di una rivoluzione maoista violenta, destabilizzante e nociva soprattutto ai più deboli, appare sprofondato all’opposta estremità del suo simbolo, ribattezzato Sagaramāthā, “dio del cielo”. E mi affascina immaginare che l’odierna dicotomia fra bellezza naturale e degrado politico-sociale sia all’origine profonda della foschia di stagione, che avvolge, nel mattino, la valle di Kathmandu e sfuma sullo sfondo, fino a spegnerle, le sagome delle sue colline di cinta. E’ da questa valle che il Nepal ha scritto la sua atipica storia ed è qui, sin dal primo dominio mongolico attorno al VII secolo a.C., che è sempre esistito. A guardare la stessa cartina sembra un paese eletto per vocazione, quasi giustapposto, con i suoi picchi, fra l’India, il Tibet e la Cina. Stato di sosta e transito, stato di commercio, questa terra di mezzo ha ascoltato i racconti di mercanti, viaggiatori, peregrini, ha accolto culture disparate, ma sempre custodendo la sua, intatta e multiforme. Ne è emblema la nascita del quarto Buddha, un altro segno elettivo. Nel VI secolo a.C., presso la città di Lumbini, venne alla luce Siddhartha Gautama e il suo culto oltrepassò i confini, attirando i pellegrinaggi buddisti. Nonostante ciò, l’induismo ha impregnato il fluire dei secoli nepalesi.
Il Nepal è soprattutto una storia di regni diversi, di dinastie e successioni, di templi e palazzi reali e un’unificazione sanguinaria, mai del tutto metabolizzata, avvenuta nel 1769 per mano di Prithvi Narayan Shah, il fondatore della nazione. Prithvi Narayan Shah era il sovrano di Gorkha, una zona collinare di piccole dimensioni, a metà strada fra le due città più importanti, Kathmandu, la capitale, e Pokhara, adagiata fra il lago Phewa Tal e le nevi dell’Himalaya. Non è certo un caso che la guerra fra regni sia stata vinta da Gorkha. Le virtù militari dei suoi guerrieri indussero l’India e la Gran Bretagna a destinare loro reggimenti speciali nei propri eserciti. E protetto dal coraggio dei suoi soldati e forte delle sue pendici naturali, il Nepal è sfuggito alla colonizzazione, un destino comune a molti stati asiatici.
Tuttavia, la sua fisionomia, così funzionale alla propria salvaguardia, ha da sempre rappresentato la causa prima della sua incapacità di essere nazione, intesa come corpo unitario e omogeneo. Le numerose etnie popolano zone di territorio a sé stanti e parlano cento lingue e dialetti diversi. Molti villaggi, poi, sono situati a giorni di cammino dalla strada, nel più completo isolamento. Su un tale mosaico si è radicata una conformazione religiosa e sociale strutturata sul sistema delle caste, che pone delle barriere invalicabili alla commistione e, quindi, all’amalgama delle differenze. La casta definisce lo status individuale, le prospettive lavorative e delimita persino la sfera relazionale.
Su tutto domina la famiglia, centro della vita quotidiana, fonte di diritti e doveri. Il matrimonio è difficilmente frutto di una scelta autonoma e personale, più spesso viene combinato dai padri, contestualmente alla casta e all’etnia di appartenenza. Le madri non hanno nessun voce in capitolo.
Anello indissolubile della catena è il concetto indù di karma. L’induista, infatti, persegue la moksha, la propria liberazione da un ciclo di vita, morte e rinascita e lo può fare soltanto attraverso il compimento di buone azioni, che generano un karma positivo e una reincarnazione migliore e più vicina alla moksha. Chi, dunque, annaspa in condizioni disagiate è vittima del karma negativo meritato nella vita precedente. Il binomio casta e karma suscita, sovente, un caratteristico fatalismo, ben esplicato dall’espressione nepalese ricorrente ”Khe garne?” (che fare?), ostacolo alla necessaria evoluzione.
Se, durante gli ultimi secoli, l’egemonia dei re aveva ovviato, parzialmente, alla complessità di un tale scenario, elevandosi al di sopra delle parti, il passaggio a una democrazia multipartitica, seppur nell’ambito di una monarchia costituzionale, avvenuto tra il ‘90 e il ‘91, non trovò il terreno fertile su cui attecchire. E, come spesso accade in simili contesti, l’instabilità, la corruzione e l’inefficienza dilagarono, frustrando l’opinione pubblica.
L’alterazione degli equilibri sfociò nel ‘96, quando la componente Maoista del partito comunista raccolse il malcontento diffuso, si barricò sulle colline e dichiarò guerra allo stato. Il conflitto civile imperversò per un decennio, causando migliaia di morti, sequestri, torture e l’utilizzo dei bambini soldato. L’azione maoista si rivelò, però, controproducente per la povera gente. Le zone rurali in condizioni di estrema povertà finirono, infatti, per essere private dei fondi allo sviluppo, reindirizzati alla difesa, e dell’aiuto fornito dalle organizzazioni internazionali, frenate dagli ovvi problemi di sicurezza.
Nel frattempo, la politica continuava ad esprimere la propria inettitudine, alternando nove governi in dieci anni e spingendo il re Gyanendra, nel 2005, a sospendere temporaneamente la democrazia. E’ questa però la goccia che ricompone il vaso, o perlomeno la sua facciata. Le drastiche misure adottate dal re, come le linee telefoniche tagliate e la detenzione di numerose figure politiche di primo piano, inasprirono la contesa e scatenarono un movimento trasversale di protesta. I maggiori partiti si riunirono in una santa alleanza e raggiunsero un accordo con i maoisti, concordando i futuri sviluppi. La vita civile fu dominata da boicottaggi, violente manifestazioni e scioperi generali, culminanti nell’Aprile 2006 negli scontri cruenti di Kathmandu, che costrinsero il re a restaurare la democrazia.
Ciò che segue è storia recente, che si protrae fino ai giorni nostri. Il governo ad interim spogliò il re di ogni potere e impiegò più di un anno per indire le elezioni dell’assemblea costituente. Queste ultime si tennero nel 2008 e se le aggiudicarono i maoisti, che non ottennero però i seggi necessari a governare in autonomia. Il resto dei partiti si coalizzò, temendo una deriva autoritaria maoista. L’assemblea costituente abolì la monarchia, ponendo fine a una storia di oltre duecento anni, dichiarò il paese una repubblica federale democratica e stabilì le commissioni delegate alla stesura della costituzione. Tuttavia, le tensioni si acuirono, soprattutto a causa della mancata integrazione delle milizie maoiste nell’esercito nazionale, i crimini impuniti svilirono sempre più la giustizia, e le esigenze delle fasce di popolazione più lacerate dal conflitto decennale non trovarono adeguate risposte.
Nel 2009 lo stallo diventa totale. Dopo l’ennesima disputa sul collocamento delle proprie truppe, il premier maoista Prachanda si dimette e il suo partito boicotta i lavori del parlamento da Agosto a fine Dicembre, paralizzando il paese. I report dell’anno raccontano di una nazione a pezzi: cento giorni di scioperi, 25 uomini d’affari uccisi e 65 rapiti da bande armate, una grave crisi elettrica a ledere la boccheggiante economia, quasi quattro milioni di persone a rischio denutrizione e più di 20 mila famiglie colpite dall’alluvione e rimaste senza casa.
E intanto il countdown procede ineluttabile verso il 28 Maggio 2010, giorno di promulgazione della nuova Costituzione. Sono poche, ormai, le speranze che venga rispettata e il paese che arranca, sfilacciato e stremato da un conflitto perenne, continua la sua lenta e disperata agonia.
Alessandro Rizzi lavora per la cooperazione internazionale in Colombia, dopo le esperienze in Asia fra Cambogia e Nepal. Nato nel 1982, laureato alla Cattolica di Milano in comunicazione dei media, ha collaborato a vari giornali, tra cui "Gazzetta di Parma" e "Corriere Canadese di Toronto". Da Londra ha scritto per "La Repubblica" e "Peace Reporter". Dalla Cambogia per "Popoli" e "Reset". Dal Nepal per "Popoli".