Chissà se il ministro del lavoro Treu ha mai visto l’Ufficio di collocamento di Napoli, in via Amerigo Vespucci 174, alla Marina. Si entra e ci si trova subito tra una massa di persone eccitate e insieme depresse. Nessuno vuole parlarti. Chi sei? Che cosa vuoi? Fuori i documenti. I disoccupati incolonnati compilano moduli, chiedono spiegazioni, ogni tanto si sente un grido o un brontolio, “mariuoli”, “imbroglioni”.
Fin quando trovo un’impiegata di buona volontà che attraverso un labirinto di corridoi mi accompagna dal capufficio che dovrebbe darmi le notizie. Si cammina tra armadi di ferro che contengono le pratiche, i fascicoli, i sottofascicoli. Il ventre di Napoli, gli inferi del lavoro. Si intravedono stanze malmesse, sgabuzzini lerci. Da qualche stampante in funzione escono strisce interminabili di nomi, bisce di carta che si attorcigliano sui pavimenti. Gli uffici sono a pezzi, mancano le fotocopiatrici e anche i telefoni diretti.
Il capufficio ha il computer per terra, la tastiera sotto la sedia, degli scatolotti ammucchiati in un angolo, un divanetto appoggiato a una parete scrostata. Si spaventa moltissimo, anche se chiedo soltanto qual è il numero ufficiale dei disoccupati di Napoli. Mi conduce in un altro ufficio. Finalmente, da una gentile signora vengo a sapere. I disoccupati di Napoli iscritti nelle liste di collocamento sono 177.127; i disoccupati di tutta la provincia sono 525.922. Ogni sei mesi devono venire qui per farsi fare un timbro sul libretto, il rinnovo. Duecentomila Totò impazziti.
Rinnovo di che cosa? «Noi non diamo lavoro, mi dice la gentile signora, una sociologa, diamo lo status di disoccupato». Un titolo anch’esso ambito che dà qualche vantaggio, i ticket sanitari, la precedenza nell’assegnazione degli alloggi, qualche assegno. Ma non ha poteri, l’Ufficio che per cinquant’anni è stato nelle mani dei padroni della città legati al governo centrale, alle clientele degli uomini di partito, agli affarismi, alla camorra.
Il collocamento adesso non colloca, riceve solo le comunicazioni che qualcuno è stato assunto da un’azienda, può avviare tutt’al più al lavoro qualche bidello, qualche portantino, qualche handicappato, qualche cassintegrato. Le classificazioni sono arcaiche, agricoltura, industria, altre attività. Tutto qui. La giungla del mercato del lavoro non risulta. Nelle liste sono iscritti anche tremila extracomunitari, pare che trovino lavoro nero come domestici, più sfruttati dei locali, sottopagati.
Esco dall’edificio del collocamento tappezzato di manifesti – «Corsisti organizzati. Chiediamo lavoro ci danno polizia»; «Vogliono riportarci al caporalato» – e al Gambrinus, il caffè davanti al Palazzo Reale, incontro Amato Lamberti, presidente dell’Amministrazione provinciale, professore di sociologia all’Università. A Napoli i numeri sono un supplizio, i conti non tornano mai. Lamberti me lo conferma: «Mancano dati corretti, il primo studio che bisognerebbe fare è un quadro serio e differenziato del mercato del lavoro». Di quei 177.127 disoccupati iscritti nelle liste di Napoli e in quel mezzo milione e più di iscritti nelle liste della provincia quanti sono veramente disoccupati? Come si fa – ovunque, ma a Napoli più che altrove – a tenere il conto di chi si arrangia, fa il lavoro nero, il lavoro grigio, esercita mestieri incontrollabili, è occupato per qualche ora, lavora in ditte fantasma? Mi dice Lamberti che in città e nella sua informe area metropolitana opererebbero 1.500 imprenditori neri. Calzature e abbigliamento, soprattutto.
Di recente è stata scoperta un’azienda di confezioni di Grumo Nevano con un fatturato di 40 miliardi di lire l’anno. Molte di queste aziende hanno una loro produzione originale, altre sono specializzate nella falsificazione di marchi famosi.
In piazza Plebiscito – non sono ancora le undici della mattina – ci sono già due gruppetti di disoccupati che protestano davanti a un cordone di polizia, in allarme dopo i disordini delle settimane passate. Da un lato le “Forze azzurre”, una cinquantina di persone che si ispirano a Berlusconi e guardano sdegnosi i “Disoccupati storici Flegrea”, un centinaio, che si sono ritirati adesso sulle gradinate del porticato. Il portavoce degli “storici” chiede ai suoi associati il recapito e i più gli urlano i numeri dei loro cellulari. Sono diversi in tutto dai disoccupati organizzati di vent’anni fa che sembravano incendiare la città con i loro slogan, «Uno due tre quattro nui vulimmo faticà. Cinque sei sette otto qui succede un quarantotto».
La prefettura ha costituito un gruppo formato dai rappresentanti degli enti, dei carabinieri e della finanza per la lotta contro il lavoro nero. Dal dicembre 1995 a oggi sono state ispezionate 200 aziende, una goccia nel mare: solo il 36% sarebbero in nero. Le vere e proprie aziende fantasma non sono molte, alcune sono in regola, altre hanno un numero più o meno alto di operai assicurati e di operai in nero.
Mi dice il funzionario che se ne occupa, Luigi Armogida: «Le sanzioni potrebbero far rendere una ventina di miliardi». Sta dando torto al segretario del Pds, Massimo D’Alema, autore, all’ultimo congresso del partito, di una dichiarazione controversa: «Lo so anch’io che nel Mezzogiorno ci sono almeno due milioni di italiani che lavorano in nero: donne, giovani. Sento anch’io questa come un’enorme vergogna, ma non sono sicuro che sia soltanto un problema di polizia, di ispettori del lavoro: temo che non basti. Non sono sicuro che se li scopriamo avremo settemila miliardi di entrate in più. Io temo che se li scopriamo alcuni pagheranno le tasse ma altri chiuderanno e avremo forse un milione di disoccupati in più in giro per il Mezzogiorno».
Certo, queste aziende danno lavoro e se sono costrette a rispettare la legge possono chiudere mettendo in discussione forme di occupazione. Ma il problema non riguarda solo la legalità di un paese normale. Gli ispettori, nelle loro indagini, hanno scoperto condizioni di igiene e di mancata sicurezza del lavoro davvero vergognose e pericolose.
Costeggio il Teatro San Carlo e al Maschio Angioino, dove c’è un convegno di sindaci, incontro Isaia Sales, sottosegretario del Pds al Bilancio, che conosce bene queste terre dov’è nato. Ha scritto, tra l’altro, “La camorra le camorre”, uno dei libri più documentati sulla malavita politica napoletana. Mi dice due cose: che a Napoli non sta esplodendo la disoccupazione, ma stanno esplodendo gli ammortizzatori sociali, i lavori socialmente utili. Che lo Stato sociale nel Mezzogiorno non è mai esistito, abbiamo semplicemente avuto la costruzione piramidale della clientela democristiana che ha legato disperazione, protezione e assistenza. Sulla disperazione non si costruisce nulla: bisogna invece avviare processi di sviluppo duraturi, sbloccare finanziamenti che non vengono utilizzati, creare le condizioni perché vi siano possibilità di lavoro tenendo conto che non sono lo Stato e il Comune che possono dare lavoro.
Mi dice che a Napoli e nel Sud c’è qualcosa di nuovo, i sindaci puliti che non hanno nulla in comune coi sindaci-capi di gabinetto dei boss del passato e hanno conquistato sul serio la rappresentanza politica della società, l’esplosione di piccole e medie imprese, tante nuove forme di impegno giovanile, il moltiplicarsi di prestiti d’onore richiesti dai giovani – 12 mila in Campania – per impiantare attività imprenditoriali, la nascita di 600 imprese legali oggi in attività con 12 mila addetti e mille miliardi di fatturato nate dalle selezioni delle Società per l’imprenditorialità giovanile di Carlo Borgomeo grazie alle leggi 44 e 236. E poi, esultante, mi dà la notizia di una recentissima indagine dell’Abacus: l’idea del posto di lavoro fisso per tutta la vita, protetto e al riparo da ogni logica di mercato, è stata sconfitta. Il 40 per cento dei giovani meridionali desidererebbe mettersi in proprio. Sembra la bottiglia arrivata dal mare. I giovani di Napoli non ambiscono più al posto fisso? Me ne parlano in tanti, come liberati, Paolo De Feo, presidente dell’Unione industriali, Michele Gravano, segretario della Camera del Lavoro, il sindaco Bassolino.
Ma non è propriamente così. «Avvierebbe attività in proprio?», chiedono gli intervistatori dell’Abacus. E il 42,6 per cento degli interrogati meridionali, in una percentuale superiore alle altre aree del Paese, risponde di sì. Ma non c’è l’antitesi, non viene chiesto qual è l’opinione sul posto fisso (i napoletani, nei secoli, non hanno fatto altro che “avviare attività in proprio”).
A Napoli la speranza è necessaria come il pane. Bassolino ha saputo crearla o ricrearla, rifacendo della città una capitale legata al mondo. Con cose concrete. Il prestito obbligazionario – i Boc Napoli – venduti sul mercato americano, 300 miliardi. Il contratto firmato l’altro giorno con gli inglesi della British Airport Authority per la privatizzazione dell’aeroporto di Capodichino: il 70 per cento agli inglesi, il 20 per cento al Comune e alla provincia di Napoli, il 5 per cento ai lavoratori dello scalo, l’ultimo cinque per cento ai privati napoletani.
Non è facile la vita del sindaco di Napoli: è costretto a muoversi continuamente per dare una risposta ai disoccupati disorganizzati iscritti al collocamento che hanno voglia di lavorare. È critico col Governo. «Lo sarò fin quando non vedrò realizzata la scelta fondamentale: l’esecutivo si renda conto che il lavoro e l’impegno sul lavoro devono essere l’anima di un governo di centro-sinistra. Lo ripeterò ogni giorno, goccia dopo goccia».
Napoli è un miscuglio di vecchio e di nuovo dopo i terribili anni Ottanta, quelli degli affari e dei traffici loschi e criminali delle istituzioni della Repubblica con la camorra. Che cosa c’è di nuovo? Un imprenditore come Paolo De Feo, per esempio, diventato presidente degli industriali, un posto chiave che nel passato collegava le istituzioni compromesse, il clientelismo più selvaggio, i poteri criminali. De Feo è presidente di un grande gruppo industriale, l’IPM Group, sistemi e terminali per la telefonia pubblica e privata, alta tecnologia, mille dipendenti, 250 ricercatori. «La legalità – mi dice subito – è essenziale, come la sicurezza dei cittadini e la vivibilità. Duecentomila persone almeno vivono e lavorano nei cunicoli del sommerso. Bisogna farle emergere, rompere la rigidità del lavoro, consentire contratti a tempo determinato, abolire le categorie protette. Bisogna assecondare – mi dice anche – lo spirito imprenditoriale che è il DNA dei napoletani: il posteggiatore abusivo non è il primo imprenditore di se stesso?»
Non è certo facile costruire una nuova Napoli. Che cosa c’è di vecchio? Lo spirito dell’assistenza e della precarietà, i disoccupati organizzati, i 1200 corsisti che perseguono antiche logiche, legati in molti a idee di vent’anni fa, quelle dell’Autonomia operaia. Di vecchio e pericoloso c’è anche il peso della camorra che seguita ad avere consensi sociali ampi. Mi dicono i magistrati della direzione distrettuale antimafia che la camorra è stata sempre protagonista nel mercato del lavoro, strumento di rapporti con le istituzioni, interessata, infiltrata, con mogli, sorelle e madri, nelle liste storiche.
Qual è la preoccupazione più grave? I magistrati temono molto un avvio distorto e non limpido delle grandi opere pubbliche. La camorra si sta preparando, dicono. Il sistema dell’edilizia corrotta non è stato per nulla smantellato.
Brano dal libro L’Italia ferita di Corrado Stajano, Editore Cinemazero – Le voci dell’inchiesta
Corrado Stajano, giornalista, scrittore. È stato redattore e inviato de Il Mondo di Pannunzio, Tempo Illustrato, Panorama, Il Giorno, Il Messaggero, L'Unità. Ha collaborato a Micromega, L'Indice, Belfagor. Scrive sul Corriere della Sera. Ha lavorato a lungo alla Rai, documentari televisivi di argomento politico, sociale, culturale firmati anche insieme a Ermanno Olmi e Gianfranco Campigotto. È stato consulente per la saggistica dell'editore Einaudi. Senatore della Repubblica per la sinistra indipendente, ha fatto parte della commissione giustizia e della commissione parlamentare antimafia. Fra i suoi libri Il sovversivo, L'Italia nichilista, Terremoto (con Giovanni Russo), Un eroe borghese dal quale Michele Placido ha tratto un film. Nel 1994 ha lasciato l'Einaudi per la Garzanti. Con Promemoria ha vinto il Premio Viareggio 1997 mentre con Ameni inganni, assieme a Gherardo Colombo, e il bellissimo La città degli untori si è aggiudicato il Premio Bagutta 2009.
La foto di Corrado Stajano è stata pubblicata all'indirizzo http://www.flickr.com/photos/rogimmi/2422159959/.