Gli studenti cileni esigono la nazionalizzazione del sistema educativo superiore privatizzato dalla dittatura fondomonetarista di Augusto Pinochet al prezzo del sangue dei desaparecidos. Esigono gli studenti cileni che la Costituzione smetta di destinare all’esercito gli introiti del rame, la principale risorsa del paese, in grande auge da quando la Cina ne è divenuta compratrice, e che usi tali ricavi per l’educazione pubblica.
350.000 a Santiago, almeno 100.000 a Valparaíso, 50.000 a Concepción, almeno 200.000 in altre manifestazioni nel resto del paese. Sono studenti, spesso accompagnati dai familiari, movimenti sociali, lavoratori. Chiedono un cambiamento profondo in un sistema educativo insostenibile dove, più che in qualunque altro settore, ha inciso la violenza dell’ideologia neoliberale impiantata dalla dittatura: l’educazione non è un diritto ma una merce come un’altra. Fu così che Augusto Pinochet smembrò in quindici pezzi l’un tempo gloriosa e battagliera Università del Cile dalla radio comunitaria della quale cantava Víctor Jara. Ne privatizzò 13 e ne lasciò solo due pubbliche facendo in modo che anche studiare in queste ultime fosse altrettanto costoso che nelle università private, in proporzione tra le più care al mondo.
Così le aule universitarie in Cile vissero una trasformazione antropologica. Riservate alle classi medio-alte, i pochi non appartenenti alle classi dirigenti dovevano trottare, studiare e non pensare, conseguire a caro prezzo il titolo e quindi mettersi a lavorare per ripagare il gravoso debito sulle loro teste. E’ anche sulla base di questo paradigma che l’università pubblica fu colpita perché smettesse di essere luogo di produzione di pensiero critico (leggasi “focolaio di sovversione”).
E’ stato così che -semplicemente- da quasi 40 anni in Cile le classi medio-basse sono state escluse dall’educazione superiore a meno di non indebitarsi con le banche private per tutta la vita. E’ un sistema, quello dell’educazione privatizzata e condizionata al credito, dove gli studenti si caricano di enormi prestiti solo pallidamente agevolati, che pagheranno una volta laureati, che il Cile ha sperimentato per primo al mondo e che oggi vuole abbandonare.
In un paese prima terrorizzato dalla dittatura dei Chicago boys, quindi addormentato da vent’anni di governi della Concertazione (centro-sinistra), adesso quel sistema, del quale il presidente Sebastián Piñera è continuatore, esplode e prende la forma di piattaforme democratiche che chiedono una profonda riforma della società cilena che ha nel ripristino dell’educazione per tutti il suo architrave.
Anche il Cile, che dall’11 settembre in avanti ha costruito se stesso come un mondo a parte rispetto all’America latina, con un’economia ancillare a quella statunitense e una società completamente identificata col modello neoliberale, vuole tornare a far parte del Continente.
Il sistema educativo cileno, contro il quale 700.000 studenti sono scesi in piazza ieri, non è dissimile da quello che pretenderebbe di impiantare in Italia la proposta di legge presentata tra gli altri dal senatore del Partito Democratico, Pietro Ichino (leggi l’ottima Francesca Coin). L’accesso all’educazione non sarebbe più pubblica e (semi)gratuita ma condizionata all’indebitamento di massa per molte decine di migliaia di € (dai 50 ai 100.000) per poter studiare per poi immettersi in un mercato del lavoro (quello odierno della precarietà strutturale) esponendosi (in Cile, come in Gran Bretagna come domani in Italia) al rischio continuo del fallimento.
Tale sistema si basa su due grandi menzogne che paesi seri come la Germania non si berranno mai e propagandate da pifferai del modello come Francesco Giavazzi: la prima è che non ci siano i soldi da destinare all’educazione, all’università e alla ricerca pubblica. La seconda è che le classi popolari manterrebbero i figli delle classi medie agli studi senza usufruirne e perciò un sistema pubblico sarebbe ingiusto.
Proprio gli oltre 30 anni di esperienza del modello cileno testimoniano che siamo di fronte a due menzogne al di là di ogni altra considerazione sull’utilità per qualunque paese del puntare su Università e ricerca. La prima è che la mancanza di fondi sia un fatto ineluttabile e non dipenda invece da precise scelte sull’allocazione delle risorse fatte dai governi. Un altro fisco, che colpisca l’evasione, funga da perequatore delle differenze sociali e che abbia come obbiettivo preciso quello di garantire servizi pubblici gratuiti ed efficienti, è possibile checché ne pensino Giavazzi e Ichino. La seconda è che in un modello educativo fondato sull’indebitamento le classi popolari neanche si pongono il problema se studiare o no. Ne sono semplicemente escluse, perpetuando le gerarchie sociali e senza alcun ascensore possibile. Il Cile è vicino, stiamo attenti.
Gennaro Carotenuto insegna Storia del Giornalismo presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Macerata. Giornalista pubblicista, dal 1998 collabora con programmi di Radio3 Rai e il trimestrale "Latinoamerica" dove scrive dal 1992. Ha lavorato o collaborato con quotidiani come El País di Madrid, La Stampa, La Jornada. Dal ‘97 è analista di politica internazionale ed è socio della cooperativa editoriale del settimanale uruguayano Brecha. Nel 2005 ha pubblicato "Franco e Mussolini, la guerra vista dal Mediterraneo", Sperling&Kupfer, Milano. Nel 2007 ha curato il volume "Storia e comunicazione. Un rapporto in evoluzione", EUM. Nel 2009 è uscito "Giornalismo partecipativo. Storia critica dell'informazione al tempo di Internet", Nuovi Mondi.