Quanti Ruzante ha conosciuto Dario Fo? “Uno, il più grande, quando ero ragazzo: Giuseppe Rota, detto Bristin, soprannome rubato dal seme del peperone, la parte che brucia di più. Mio nonno, famosissimo. Una volta sono andato a Mortara, la prima tournée e con “Sette giorni a Milano”, fine anni Quaranta. La gente mi conosceva dalla radio. “Sette giorni a Milano” andava in onda alla sera del sabato. Come si diceva allora “con gli ascoltatori a tavola”, il massimo dell’audience. Mangiavano e ridevano.
A Mortara viene a salutarmi un vecchio signore. Parlava dialetto: “Brav, ma prima de rivar a livel de to non, eh…”, bravo, ma ce ne vuole per arrivare a tuo nonno”. Faceva l’attore? “Faceva l’ortolano. Piccolo, guance arrossate, occhi che bucavano. Chissà quante morose in giro. Un fabulatore famoso ma anche stupendo contadino. “Quan ritira il Nobel, l’orazione di Fo, definisce Ruzzante” il più grande autore di teatro che l’uropa abbia avuto nel Rinascimento prima dell’avvento di Shakespeare. Ruzzante Beolco è il mio maestro insieme a Molière, entrambi attori autori, entrambi sbeffeggiati dai sommi letterati del tempo”. Il tempo del Ruzzante padovano corre tra il 1496 e il 1542.
Raccontava sorridendo della vita agra di contadini e povera gente in un dialetto pavano (antico padovano) che Dario resuscita nell’invenzione dei nostri giorni. Ma ad accendere il fuoco della sua adolescenza è Bristin, il nonno contadino. Lo ricorda in un incontro di qualche tempo fa: “Nel ’25, prima che nascessi, lo avevano chiamato all’Università di Pavia per dimostrazioni pratiche. Uno dei primi a tentare gli innesti. Pere con mele, prugne con albicocche. Quando arrivavo trovavo piante mai viste. Il paradiso terrestre in una serra enorme, alberi sotto cupole di vetro. Oltre questa “follia”, aveva un carro per vendere ortaggi. Ma anche fiori e la frutta di stagione. Carro immenso ed istoriato, coperto da ceste. Mi portava con lui. Si partiva che era buio, avvolti nelle coperte se era inverno. Appena l’aria addolciva, Bristin mi metteva a cavallo: un bertone di origine ungherese, grande come un elefante, orecchie minute che cascavano in basso. Sedevo sul culo, le gambe arrivavano a malapena a toccare la pancia infinita. Giravamo per fattorie che erano paesi: le cascine degli Aosta con trenta famiglie nella corte. Arrivavamo e scoppiava la festa. Lui cominciava a gridare. Raccontava storie in dialetto, ma non proprio storie: cronache indiscrete. Corna, tradimenti, la vendetta e il sangue.
“Tragedia a Sarzana”, urlava. “Lui esce in mutande dal balcone trascinando la moglie nuda come. è una puttana, annuncia alla folla. Intanto l’amico fedifrago scappa per le scale ma inciampa, rotola e si rompe le gambe. Lo potete ritrovare- il nonno alzava la voce-. all’ospedale di Carrara, camera 32. Portategli i fiori, se li è guadagnati”. Raccontava gli adulteri della cascina vicina. E la gente rideva perché Bristin infiorava la scena impugnando zucchine e porri enormi per far capire le dimensioni. Intramontabile la leggenda della cenere. Quando una vedova si innamorava, i ragazzi del cortile segnano con la cenere un sentiero fino alla porta dell’uomo del cuore: tutti dovevano sapessero.
“Attenzione – voce del nonno – il sentiero che a un certo punto prende due strade. Una va verso la casa del prete”. E le massaie che compravano e singhiozzavano con la mano sulla bocca. Compravano patate senza pagare il biglietto del teatro”. Andava spesso in giro con lui? “Ogni estate o quando nasceva qualche fratello. Venivo spedito in treno: Luino, Novara, Mortara, finalmente Sartirana, paese delle rane. Quattro ore di viaggio sui treni di allora ma non è che adesso si arriva prima. Mia madre, era una contadina letterata, ed ha scritto un libro, “Il paese delle rane”, pubblicato da Einaudi e tradotto in Europa: le storie della corte e delle altre cascine. Nel ricordo Sartirana diventa un paradiso, anch’io lo vedevo così. Il cortile, il fieno, i cavalli e, in fondo, la “conserva”, capanna coperta con canna di fiume. Si scendeva una scala a chiocciola. Sotto tenevano il formaggio, le uova, la carne”. E la nonna? “La Bella Maria. Stupenda, un filo di voce.
Gliel’aveva rubata la paura. Un innamorato respinto, era entrato nel cortile sparando. Appena una ferita di striscio al collo, il collo sottile di mia madre, ma la Bella Maria si era talmente spaventata da perdere la parola. Poi la voce è tornata: un sussurro. Dormivo in mezzo ai nonni nel lettone scaldato col prete e la slitta. Beato, come non ricordo più”. Suo padre? “Capostazione attorno al lago, e per 9 anni a Porto Valtravaglia, abito nero, bottoni d’oro, cappello rosso e le mostrine. Sembrava un generale. Ma il primo ricordo non è in divisa: recitava. Ero in braccio alla mamma e lui sul palcoscenico con un Ibsen crudele: storia del bambino del quale i genitori vogliono liberarsi. Che lo portino via gli zingari o una malattia. Un bambino attore giocava col “mio” cavallo a dondolo prestato alla filodrammatica. Lo aveva regalato uno zio megalomane. Slittava su una leva e dondolando camminava nella stanza. Mi sono messo a gridare. Capirai, un altro bambino sul mio cavallo”.
Gli anni più belli dell’adolescenza in riva al lago… “Non solo il lago. Valtravaglia è un bel paese di matti. Non per l’acqua dolce che, come dice Zavattini, fa impazzire la gente. C’erano soffiatori di vetro arrivati nei secoli da ogni parte. Basta guardare l’elenco telefonico: ungheresi, tedeschi, francesi. Un parente si chiama Sumacher. La malattia fondamentale era la silicosi con uno stadio di passaggio che procura un bello scatto di pazzia. Ricordo la macchina del comune imbottita: serviva a portare i matti a Varese. Sono stato fortunato; forse buona parte della mia fortuna viene proprio da lì. La mescolanza di gente diversa ha creato un tessuto culturale fantastico. Gente che raccontava favole. Sul molo, o sotto i portici, pescatori che riparavano le reti. Noi ragazzi aiutavamo il rammedatore nel trovare i buchi. Lui cuciva e contava. Li ricordo con i nomignoli del ribattezzo d’ogni paese: Dighelnò (non dirlo) e Angelo Scanabish, scannabisce. Storie paradossali: la caccia alle lumache con la fiocina. Lumache grosse come maiali e talmente veloci che serviva una moto per stare dietro. E poi la tragedia di Rocca Caldè, paese che stava in cima alle rocce di Caldè. Una frana lenta, per secoli lo ha spinto verso il lago, ma la gente non voleva saperne di andare via per non perdere la casa, soprattutto il privilegio di vivere così in alto. Finché il paese è precipitato trecento metri sotto l’acqua”.
“Andavo e venivo da Milano, il liceo a Brera, raccontando in treno queste storie. Ne sapevo tante, non tacevo mai. Vittorio Sereni, poeta dolce, sottile, intelligente; Sereni mi dava un tema: “Parla del Carducci e di Alberto da Giussano”. Io pensavo come Dighelnò avrebbe riferito la poesia agli amici: “Cioè, era lì davanti, l’Alberto quello che è un po’ Giussano, che lui sovrasta il capo anche con la barbuta… Allora il Barbarossa l’è venuto, l’è andato, l’ha preso, ci ha bruciato la città, ci ha messo anche il sale, ci ha portato via i comaschi che a me stavano anche sui coglioni. Ci aveva portato via già tutte le pietre, una a una, tutte numerate, e tutto quello che c’è di torno l’hanno costruito con la roba nostra, che poi, un giorno o l’altro, porca miseria, andremo là e tiriamo indietro. E Crema, come l’è nata? Crema è tutta portata via da qui. Quell’altro che fa il furbo, gliela vende la roba, mica la dà gratis: vieni, buttiamo giù Milano e la rifacciamo da capo. Intanto gli dà le pietre…”
Raccontava anche Milano? “Fuori da Brera c’è il Giamaica. E poi le sorelle Pirovini dove si andava a mangiare. Ci trovavamo tutti. Mi conoscevano; insistevano. Distribuivo le favole dei ricamatori di reti. Ne inventavo altre. Il paese che sente odor di funghi e cerca i funghi con cani da funghi, finché scopre di essere costruito su un fungo infinito. Allora si nutrono scavando caverne, mangiando funghi come vermi. Ascoltavano amici straordinari: Lizzani il regista, Carlo Bo letterato severo, Pietro Bianchi, Ugo Mulas, Cassinari, Morlotti, Pontecorvo, Emilio Tadini. Arrivava Vittorini con quelli di “Politecnico”. La scoperta di Milano era un incanto. Scendevo alla stazione Garibaldi che allora era dietro piazza Repubblica. Incontravo gente che chiacchierava, che rideva, i tram correvano sempre. Dava l’idea di qualcosa che non si fermava mai. Anche il vento alzava le sottane delle ragazze. Una festa. Sulla scoperta ho scritto una canzone per il primo spettacolo di Jannacci. Si parlava fino al mattino e Parigi sembrava dietro l’angolo, mentre adesso, malgrado l’aereo, è lontanissima. Perché Parigi non è cambiata, Milano sì. Devo a Tadini il primo personaggio fatto in teatro: Pover Nano. Lo ripeteva per commiserare la persona che prendeva in giro. E sul filo dell’Alberto da Giussano, ho rifatto Colombo, il Rigoletto, Davide e Golia, in fondo tanti pover nani” perché ha lasciato la pittura o lo studio da architetto, per il teatro?
“Nel ’48 ho avuto una crisi nera. Vivevo con i pittori. Morlotti veniva a casa mia. Bel tenebroso, incantava le donne. E mia madre lo fulminava con la sua ironia: “Lei Morlotti, appena ride, nessuna ragazza la guarda più”. Dipingevo. Ho fatto mostre. Perfino un premio Bergamo: figurativo guardando de Chirico. Non mi andava il sistema delle gallerie. Ti affittavano: tanto di stipendio, tanti olii, tanti disegni, tante tempere. Cose così. Come architetto dovevo fare gli “sviluppi” nello studio Ciuti. Pagato bene, ma lavoro da negro. Finché ho conosciuto Franco Parenti che mi ha offerto un posto in “Sette giorni a Milano”. Stava cominciando all’Odeon, poi l’ha ripreso la radio”.
Dove ha conosciuto Franca Rame? Risponde Franca: “Nella compagnia c’ero anch’io. Soubrette parlante. Niente nudo, qualche battuta. Dovevo dire: “Il Coriolano in cinque atti”, e Parenti che veniva dal Piccolo si arrabbiava: “Questa battuta devi portarla sul velluto”. Me l’ha fatta ripetere quaranta volte e sono scoppiata a piangere. Poi ho visto questo ragazzo bruttino che non mi guardava per niente…”. Fo: “Era impossibile. Aveva uomini che la corteggiavano dappertutto. Fuori, dentro, di traverso. Copertina sulle “Ore” come la Loren…” Rame: “Finché un giorno mi sono stufata. Stavamo provando in un cinema affittato, il Colosseo. L’ho sbattuto contro il muro e l’ho baciato in palcoscenico.
Dopo quel bacio è stato un amore di scarpe: abitavo in via Ennio, lui in via Eustachi, quattro chilometri di strada. Talmente poveri da non sapere cos’era un taxi. Dopo teatro Dario mi accompagnava, io riaccompagnavo lui e lui tornava a casa mia. Viaggi di notte. Adesso che ci penso, il 24 giugno abbiamo fatto 58 anni di matrimonio. Mi fa paura. Non ci siamo ancora uccisi”.