La Lettera

Per ripulire la democrazia inquinata i ragazzi hanno bisogno di un giornale libero

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È abbastanza frequente che editori della carta stampata chiudano i loro giornali. Anche a me è capitato quando dirigevo “L’Avvenire d’Italia”, e oggi si annuncia una vera e propria epidemia a causa della decisione del governo di togliere i fondi all’editoria giornalistica. Ma che chiuda Domani di Arcoiris Tv, che è un giornale on line, è una notizia …

La Lettera

Domani chiude, addio

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L’ironia di Jacques Prévert, poeta del surrealismo, versi e canzoni nei bistrot di Parigi, accompagna la decadenza della casa reale: Luigi Primo, Luigi Secondo, Luigi Terzo… Luigi XVI al quale la rivoluzione taglia la testa: “Che dinastia è mai questa se i sovrani non sanno contare fino a 17”. Un po’ la storia di Domani: non riesce a contare fino …

Libri e arte » Teatro »

Teatro bene comune per il palcoscenico di dopodomani

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Teatro Municipal - Foto di Elton Melo

“Non si può bluffare se c’è una civiltà teatrale, ed il teatro è una grande forza civile, il teatro toglie la vigliaccheria del vivere, toglie la paura del diverso, dell’altro, dell’ignoto, della vita, della morte”. Parole di Leo …

Inchieste » Quali riforme? »

Il governo Berlusconi non è riuscito a cancellare l’articolo 18, ci riuscirà la ministra Fornero?

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Il governo Monti ha perso il primo round con Susanna Camusso che fa la guardia alla civiltà del lavoro, fondamento dell’Europa Unita. Sono 10 anni che è morto Marco Biagi, giuslavorista ucciso dalle Br. Si sentiva minacciato, chiedeva la scorta: lo Scajola allora ministro ha commentato la sua morte, “era un rompicoglioni”. Rinasce l’odio di quei giorni? Risponde Cesare Melloni, …

Mondi » America del Sud »

Dall'altopiano al Pacifico attraverso villaggi rifugio per gli indios massacrati da esercito e guerriglia: vanno e vengono lasciando sangue e paura. Otto ore di viaggio ogni giorno di una prof che insegnare ai ragazzi di una scuola lontana. "La miseria si taglia col coltello"

Reportage – Viaggio nella foresta della guerriglia colombiana: i militari smontano il mio taxi nel sospetto nasconda armi e coca

02-06-2011

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Foto di Alessandro RizziIpiales (Colombia) – A Ipiales, cittadina nell’entroterra del sud colombiano al confine con l’Ecuador, un imponente manifesto accoglie chi, come me, ha appena superato la frontiera e si dirige verso il centro urbano. La gigantografia comunica i nomi e i volti dei capi guerriglieri della zona, catturati o uccisi o ancora a piede libero: chi li denuncia può ricevere una somma compresa tra 70 mila e 1 milione e 400 mila euro. Il sud della Colombia è da sempre la roccaforte della guerriglia e il suo accampamento itinerante si nasconde fra le distese e i pendii di fitta boscaglia, a poche decine di km da qui. Il mio programma di viaggio prevede di scendere dai 3000 metri di Ipiales al livello del mare di Tumaco, località costiera sull’Oceano Pacifico, e Ana, una persona di fiducia, mi sta aspettando per condurmi sano e salvo a destinazione. Attraverseremo, quindi, la selva rigogliosa e inospitale abitata dalle truppe guerrigliere.

Ana è una donna in carne, meticcia, molto loquace, del genere che azzanna la vita sin dagli albori del giorno. È nativa di Ricaurte, un villaggio di 15 mila anime a 1800 metri di altitudine. Il paesino è a circa metà del nostro percorso, in piena selva, e il piano di Ana prevede di sostare lì per la notte. Quando la incontro, mi spiega, infatti, che i guerriglieri si muovono protetti dall’oscurità, fra le tre e le sei di mattina. Ora è sera tarda e piove a dirotto: dobbiamo affrettarci. Ana mi presenta Robert, un taxista di Tumaco che per l’occasione ci farà da autista, compriamo un pollo arrosto da asporto e partiamo.

La strada è probabilmente l’evoluzione di un sentiero a tornanti e il manto assomiglia al formaggio gruviera. Robert si prodiga in sterzate repentine per evitare le buche, visto che l’auto emette rumori inquietanti e ogni impatto potrebbe rivelarsi fatale. Non si vede nulla e non si incontrano molte macchine lungo il tragitto, giusto qualche camion. In concomitanza di avamposti militari compaiono coni e ostacoli per indurre a rallentare l’andatura. L’esercito ha una presenza massiccia in Colombia, sorvegliando assiduamente le arterie del Paese e assicurando, oggi, un transito che solo qualche anno fa era a rischio imboscate. Fra le pattuglie, ragazzi con un mitra in mano e nello sguardo infantile un gioco più grande di loro. Quando li incontri ti senti protetto, ma permane uno sfondo di timore: è lo specchio del loro smarrimento. A guardare questi presidi militari sperduti nel territorio della guerriglia non è protezione quella che avverti, ma solo una forte compassione per una sorte fragile, che di notte trema nel fruscio di una foglia.

Mentre ragiono di queste cose, attraversiamo un centro abitato dove due soldati armati ci fermano e ci ordinano di uscire. Ana prova a descrivermi come una persona importante, venuta da un Paese che finanzia le casse della Colombia e, addirittura, raccomandata dal presidente in persona. Forse qualcuno raccomandato dal presidente in persona non viaggerebbe di notte, in una macchina scassata, a pochi passi dalla guerriglia. Troppo tardi per consigliare Ana. I soldati appoggiano le armi sulla ruota e intraprendono un’accurata perquisizione. Smontano la macchina pezzo a pezzo con una rapidità d’esecuzione e una meticolosità da poliziesco americano. Di fronte, in uno spiazzo al buio, alcuni ragazzi giocano a calcio. Un tiro fuori bersaglio mi consegna la palla e, meccanicamente, la rimetto in gioco. Una scena surreale per me e assolutamente ordinaria per loro. I soldati controllano i nostri documenti e ci augurano buon viaggio, avvertendoci di stare attenti.

Foto di Alessandro RizziDal finestrino Ana ci indica la montagna, presenza impercettibile, così come la guerriglia. “È lì che vivono”, mi dice. Mi chiedo come debba essere, lì, vivere. Penso a un uomo che si alza di notte nella sua camera buia e non accende la luce, perché conosce la strada verso la porta, il suo spazio e gli oggetti che lo riempiono. E penso alla selva come a una camera, un po’ più grande, con le sue buche, le sue foglie e i suoi tronchi di riferimento. Penso al guerrigliero come a una fiera acquattata sotto la coltre di vegetazione. E immagino i bivacchi senza traccia, l’abitudine di pulire la cenere del fuoco, gli avanzi di cibo, le reliquie del proprio vivere. Robert aggiunge, sghignazzando, che lì c’è anche tutta la droga del mondo e mi distoglie, così, dal mio romanzato fantasticare. Siamo quasi arrivati.

Chiedo ad Ana come sia la relazione dei guerriglieri con gli abitanti della zona, se vi sia complicità oppure ostilità. In fondo la guerriglia colombiana sostiene di lottare per quella parte cospicua di popolazione che ancora vive in miseria, specialmente nelle zone rurali. Ana mi risponde che la gente è stufa di essere in balia di un conflitto infinito, di ritrovare la propria casa improvvisamente invasa da uomini armati e di essere accusata di collaborazionismo dagli uni o dagli altri. Gli altri sono i paramilitari, gruppi armati illegali che seminano il terrore, utilizzando la violenza più atroce come strumento di sottomissione, e sono fra i principali attori del narcotraffico.

Giungiamo a casa della sorella di Ana, che ci offre vitto e alloggio. Apprezzo l’ospitalità, nonostante il petto di pollo arido con riso freddo, una stanza dalle pareti scrostate e il fetore di umido intriso ovunque, anche nelle salviette. Alla mattina è tutto più chiaro. Il nero intenso dell’oscurità ha lasciato il posto a un orizzonte di verde. Ricaurte è un villaggio adagiato nella vegetazione tropicale, con casette spartane di legno appollaiate sulle colline d’intorno. Ci sediamo sui bordi della veranda sorseggiando un tinto, il caffè colombiano. Davanti a noi l’ospedale. Sono le sei di mattina, ma c’è già un bel via vai. Alcune infermiere si fermano a parlare con i nostri ospiti, aggiornandosi sulle ultime vicende di paese.

Dicono che il villaggio è invaso dagli indigeni. Ana li dipinge come approfittatori degli aiuti governativi, che beneficiano di programmi specifici, mentre per il resto della povera gente e per i meticci come lei non resta niente. La ascolto con diffidenza. Intere comunità di indigeni sono state disgregate e spazzate via nel corso degli anni e l’astio feroce con cui ne parla rievoca tanto le vuote e generiche invettive contro gli immigrati in Italia. Con una differenza però: questa è una vera guerra fra poveri.

Ripartiamo alla volta di Tumaco. A bordo ci fanno compagnia Maria e il suo bimbo di quattro mesi, che Robert ha già battezzato “el patrón” (il capo). Maria è biologa e, prima della maternità, si faceva quotidianamente Ricaurte-Tumaco e ritorno nel retro di un camioncino: otto ore di viaggio al giorno, nell’afa che si fa sempre più umida avvicinandosi alla pianura. Lo faceva per insegnare spagnolo in una scuola di “capre”, in cui gli studenti capiscono solo libri con figure e l’hanno tacciata di eresia quando ha proposto l’ultimo Saramago. Scorrendo il finestrino indica i punti di foresta ancora vergine e racconta dei boschi di nebbia, chiamati così perché immersi nella nebbia dell’umidità tropicale. Parla del muschio, che trattiene l’acqua delle piogge impedendo frane e smottamenti e dice che non esiste altro posto al mondo in cui, nella stessa montagna, salendo dalle pendici fino alla cima, si possano incontrare vegetazioni così diverse.

Ci fermiamo sul ciglio della strada. A pochi passi la radura apre il suo sipario sulla cascata degli innamorati, così chiamata perché dietro il getto copioso si nasconde un anfratto di grotta dove le coppie vanno ad amarsi. La sosta si rivela più dolce del previsto. Robert, infatti, strappa e condivide una canna da zucchero, la principale coltivazione locale: è molto appiccicosa, un’orgia diabetica, si succhia la polpa e si sputano le fibra. E il discorso cade su “Cent’anni di solitudine” e la canna da zucchero di Macondo. Maria mi porge la canna e dice:”ecco, Gabo ( nomignolo che accompagna da quand’era bambinoi Gabriel Garcia Marquez) pensava proprio questo quando scriveva, questa canna, questa terra”.

Ma questa terra, purtroppo, è corrosa da molteplici minacce. Da anni la gente locale e i forestieri disboscano la foresta vergine per vendere legname. Un’immagine di morte, poi, mi accoglie sul lungo rettilineo che porta al Pacifico e a Tumaco: è costeggiato da cimiteri di palme. Un fungo negli ultimi sei anni ha sterminato 30 mila ettari di palma, coltivazione incentivata dal governo per i forti interessi legati al business dei biocombustibili. I contadini, lasciandosi sedurre da false promesse, hanno rinunciato alle coltivazioni tradizionali e si ritrovano senza raccolto e pieni di debiti. Come non bastasse, dall’alto piovono periodicamente fumigazioni dirette alle coltivazioni illecite di coca, ma che, a causa del vento e dell’acqua, finiscono per infettare anche le colture lecite.

Ci fermiamo brevemente nella proprietà di Ana, a pochi chilometri da Tumaco. Robert mi conduce alla rete che separa il campo del vicino e mi mostra una pianta di coca. Per sfuggire alle fumigazioni e garantirsi qualche guadagno, alcuni contadini seminano la coca sotto il riparo delle banane e della vegetazione. Il governo ha lanciato qualche anno fa una campagna che individua nei contadini e nei clienti occidentali i responsabili dei disastri portati in dote dalla cocaina. Tuttavia, a prima vista non mi sembra si annidi qui la ricchezza.

Riprendiamo il tragitto, si avvista ormai l’Oceano Pacifico. Dietro di me, nella mente, la guerriglia e la sua selva si confondono come le immagini di un sogno al risveglio.

Alessandro RizziAlessandro Rizzi lavora per la cooperazione internazionale in Colombia, dopo le esperienze in Asia fra Cambogia e Nepal. Nato nel 1982, laureato alla Cattolica di Milano in comunicazione dei media, ha collaborato a vari giornali, tra cui "Gazzetta di Parma" e "Corriere Canadese di Toronto". Da Londra ha scritto per "La Repubblica" e "Peace Reporter". Dalla Cambogia per "Popoli" e "Reset". Dal Nepal per "Popoli".

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