Il regime teocratico iraniano, da vari decenni nel cuore della bufera mediorientale, trova sempre il tempo di applicare il suo rigido codice morale-penale, ereditato da una tradizione millenaria. Il caso di Sakineh, processata per adulterio, é ben conosciuto in Italia, al punto d’aver ispirato una campagna per affiggere la sua gigantografia in vari degli ottomila Comuni italiani. “Fino a che non sará salva”. Ma anche condannando senza reticenze la lapidazione, é giusto chiedersi perché a Sakineh specificatamente (fra migliaia o forse milioni di sue compagne nel mondo islamico), é riconosciuto questo spazio nel cuore della sensibilitá europea. Il mio amico Safaa Abid, del Libano, si chiede perché mai pagare per il filmino horror da Blockbuster. Mi mostra su youtube uno dei tanti orrori gratuiti: nelle piazze pubbliche saudite, decapitazioni di uomini, presumibilmente associate a vari tipi di “crimini”, e trattamenti vari riservati alle donne. A questo punto vi chiederete perché queste persone, saudite, doppiamente vittime sia di un processo ingiusto, che di pene inumane, umilianti e sadiche, non meritino gigantografie nelle cittá europee. Semplicemente, perché come Hasad AbuKhalil, professore libanese-americano di Scienze Politiche presso la California State University, argomenta in molti suoi articoli e nel suo blog, “The Angry Arab News Service”, l’asse americano-israeliano-saudita non solo controlla le politiche in Medio Oriente, ma anche i media. AbuKhalil considera che le categorie con le quali sfogliamo margherite (“bene” e “male”, “terroristi” e “moderati”, “dittatori cattivi” e “dittatori buoni”), sono filtrate attraverso una imponente macchina mediatica controllata dalle élites pro-occidentali associate alle famiglie reali del Golfo Persico.
Esempio: il trionfo mediatico di Al-Jazeera, é proprietá dall’emiro del Qatar, sceicco Kalifa Hamed Bin Althani. Il quale democraticamente ha diretto un colpo di stato contro il suo paparino, diventando uno dei piú popolari leaders mediorientali in occidente. Ora, Al-Jazeera Arabic é cosí preoccupata circa la libertá nel mondo arabo. Non dorme mai, tormentata all’idea di rappresentare la voce della “gente”. Sempre che quella gente non viva nei sei paesi petroliferi, proccidentali e governati da sistemi tribali: Arabia Saudita, Bahrein, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Oman. E sempre che le eventuali rivoluzioni non minaccino i governi di quei paesi. Questo accordo é parte di un patto fra gentiluomini: nel 2007, dopo essersi punzecchiati a vicenda, i paesi che controllano circa il 90% dei media arabi, decidono comunemente di evitare di coprire le rivolte o di dare il minimo spazio alle voci dell’opposizione. Il secondo canale regionale, Al-Arabiya, é posseduto da Al-Waleed Bin Talal, membro della famiglia reale saudita e partner di Murdoch. Controlla anche NBC-Middle East, Rotana (canale musicale come MTV), LBC (canale libanese), e tagliamo corto che ci annoiamo. Al-Arabiya offre una copertura “moderata” e in linea con lo status quo.
Il dominio discreto saudita
Secondo Harith Al-Qarawee, editorialista del giornale iracheno Al-Alaaam, il regime saudita tende a praticare la sua egemonia in forma estremamente discreta. Anzi, invisibile. Domina in modo cosí efficace, che non si annusa nemmeno. Un po´ come certo establishment mafioso in qualche provincia della nostra Italia. La presenza eterea saudita é l’esatto contrario della cagnara dei leaders populisti e ideologizzati nelle repubbliche vicine, come il defunto Saddam Hussein, il vivissimo Ahmadinejad, l’ammaccato Gheddafi. Eppure, di recente, le spine nel fianco delle proteste popolari hanno obbligato perfino l’Arabia Saudita a mettere da parte la sua discrezione: é seguito l’invio di truppe speciali in Bahrein, per “aiutare” il locale governo sunnita ad opprimere i dimostranti sciiti. Chiaramente, se la stessa decisione fosse stata presa dall’Iran, staremo giudicando l’ “invasione iraniana”. Ma la parola “invasione” é l’ennesima categoria filtrata dai media: permessa in casi specifici, censurata in altri. Al-Qarawee segnala che l’area del Golfo Persico é ostaggio di un forte conflitto regionale fra l’Arabia Saudita e l’Iran. Il primo cerca di presentarsi come il leader del mondo sunnita, e il secondo come il leader del mondo sciita. Ma alla base dell’iceberg, lo sciismo e il sunnismo sono una finzione: il vero obiettivo rimane il potere, l’egemonia.
Differenze fra i due contendenti: l’Arabia Saudita e lo status quo
L’Arabia Saudita, primo produttore di petrolio (9 milioni di barili esportati al giorno), é l’emblema dell’oscurantismo politico al servizio dello status quo nella regione: che nessuno osi spilluzzicare dai banchetti della famiglia reale. Ufficiosamente, é alleata con l’establishment israeliano, dal momento che entrambi storcono la bocca dinnanzi ai cambi drastici in Medio Oriente. Gli stessi nemici: negli anni ’60, Nasser dell’Egitto; negli anni ’90, Saddam dell’Iraq. Adesso, Ahmadinejad dell’Iran, Hezbollah e Hamas. Con gli americani, condividono lo stesso interesse che il petrolio mediorientale fluisca serenamente verso i mercati occidentali (in buona parte per ingigantire i conti bancari degli sceicchi). Per fare questo, il regime saudita si serve da una parte dei media e delle basi militari americane, che li proteggono amorosamente. Dall’altra parte, é fedele al potere wahabita, il quale conferisce a questo regime, antidemocratico e non eletto, una fonte di legittimitá alternativa: ossia, é in gamba perché protegge il “vero islam”. Recentemente, la sicurezza saudita ha soffocato sul nascere le proteste nel nord ed est del paese, abitate dalla minoranza sciita. Poi, uno dei giornali del regime, Al Sharq Al Aswat, ha ridicolizzato il tutto descrivendo come l’unico dimostrante fosse arrivato sulla piazza, scendendo dalla sua lussuosa macchina, e, non trovando anima viva (che dissentisse col governo), é sfrecciato via. Con questa narrazione, il giornale insinua che in una societá ricca come quella saudita, non ci sia motivo di protestare. La seconda parte dell’operazione é consistita nel “discorso del re” Abdullah: ringrazia i cittadini che hanno rifiutato di ascoltare la voce del dissenso e rimpingua le tasche dei leaders religiosi. Governare corrompendo la propria gente, nelle parole di Abu Khalik. Molto piú facile, rispetto alla fatica delle riforme democratiche, aggiunge Al-Qarawee. Questi leaders wahabiti considerano la democrazia come non islamica, e hanno giudicato moralmente le proteste nelle strade, fin dalla prima iniziativa tunisina. Sono entusiasti del regime saudita perché chiude gli occhioni rispetto alle loro interpretazioni fondamentaliste dell’islam. Non solo: il regime difenderebbe il “vero islam” dagli “eretici” (secondo loro, gli sciiti). Questo spiega l’appoggio incondizionale del regime saudita rispetto agli altri governi sunniti nella regione.
Il punto cieco dell’Iran
L’altra teocrazia, quella iraniana, si presenta come la forza rivoluzionaria, dal virulento discorso antioccidentale e antisionista, contraria alla presenza americana nella regione. Ma se le basi militari in Kuwait, Bahrein, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Oman (caso a parte l’Iraq), fossero smantellate, verrebbe meno una delle principali fonti che mantiene gli sceicchi del Golfo al potere. Ecco perché l’Iran é profondamente antipatico a tanti. La Guida Suprema del regime iraniano é Khamenei, leader massimo. Ma, come spiega Al-Qarawee, la religione dominante in Iran é lo sciismo. Una interpretazione islamica che, contrariamente allo sunnismo, vanta una narrazione storica basata sull’opposizione al tiranno e al governante corrotto. Il problema che lo sciismo affronta ora in Iran, é il cosa fare…col proprio tiranno sciita. Cosa scegliere? Dare vere regole democratiche alla gente, ammettendo solo poteri direttamente eletti dal popolo? O accettare con inerzia la pressione della classe religiosa dominante, di continuare a controllare lo stato? Per prendere tempo in eterno, Ahmadinejad si distrae attraverso un discorso militante e una politica estera aggressiva, tutta improntata sul liberare la Palestina, difendere gli interessi dei marginalizzati. Appoggiare, insomma, le proteste contro le dittature…degli altri.
Due dinosauri in via di estinzione
Assistiamo ad un conflitto fra due paesi non democratici, che fondono autoritarismo politico e religioso, scontrandosi in spazi delicati come Libano, Iraq, e Bahrein. A livello retorico, ognuno sostiene di difendere gli interessi delle loro comunitá religiose; i sauditi amano la “stabilitá”, gli iraniani la “sovranitá”. Ma dietro ciascun discorso, batte il desiderio oscuro di diventare il potere egemone. Al-Qarawee conclude che nessuno dei due paesi rappresenta un buon modello per il Medio Oriente. Entrambe le ideologie questionano i diritti umani fondamentali; ed entrambi i sistemi politici discriminano le persone a seconda delle loro interpretazioni religiose. Occorre un nuovo sistema politico basato sui diritti di cittadinanza, con governi civili e democratici. Molti dall’altra parte del Mediterraneo associano i cambi in Medio Oriente a guerre civili, partizioni, caos. Ma una situazione giustificata dal timore che “l’alternativa sia il caos”, é una premessa negativa che mutila la speranza in un futuro migliore.
Specialista in cooperazione internazionale. Autrice di "Romanzo di frontiera" (Albatros, Roma 2011), magia e realtá delle donne latinoamericane alla frontiera Messico-USA; "In Amazzonia" (Milano, Feltrinelli, 2006); "La Ternura y el Poder" (Quito, Abya Yala, 2006); "Una canoa sul rio delle Amazzoni: conflitti, etnosviluppo e globalizzazione nell'Amazzonia peruviana" (Gabrielli Editore, Verona, 2002); co-autrice di "Prove di futuro" (Migrantes, Vicenza, 2010).