Assad sa di essere sullo scivolo ed è difficile capire perché continui ad affidare alla cupola militare l’illusione della sopravvivenza. Non ha la dimensione del padre, né il carisma, né il cinismo che consentiva al generale golpista (becchino del socialismo levantino del partito Baath’s) di tenere alla corda la maggioraza sunnita, lui, discendenza aluita (setta sciita) ma ateo per “vocazione naturale”. Bisogna dire che Assad figlio faceva il medico e immaginava che il padre lo avrebbe scelto come min istro della salute. Ma ecco che il feratello maggiore designato alla successione muore in un incidente e all’improvviso il dottore eredita la repubblica ereditaria di Damasco appena il padre se ne va. Regime verticistico, di normale corruzione ma di anormali reti poliziesche. Dieci polizie che soffocano ogni sospiro di chi spera nella democrazia polizie che non ammettono protagonisti che possano dare ombra al leader supremo. Assad padre ha chiuso in galera Arafat e gli uomini di Fatah quando si è reso conto che non erano leader fantocci: potevano declassare le strategie del suo regime servizievole con Mosca e Khomeini senza sdegnare la Turchia caposaldo della Nato.
Forse il vento che soffia dalla Libia; forse per per la prima volta i siriani si accorgono che Assad figlio è solo la maschera di interessi invecchiati nella paura e non importa se la rivolta si avvale di spinte e fornitori ineteressati al controllo della regione: resta straordinario il coraggio di chi ogni venerdi scende in strada per chiedere un po’ di libertà. Libertà di stampa e Tv, protezione da autorità piccole e grandi dai poteri assoluti garantiti da uno stato di emergenza che da 40 anni reprime ogni sospiro. Suucede dopo ogni venerdi di preghiera: mentre migliaia di persone accompagnano i funerali dei 44 ragazzi uccisi dalle forze speciali, altre polizie sparano nella città accanto. Nuovi morti e le rabbie crescono. La Siria é una polveriera che scoppia. Accumula problemi economici e demografici nascosti da un’economia che finora aveva assicurato la sopravvivenza. Ma il petrolio é alle ultime gocce, le braccia che lavoravano in Libano sono tornare dallaBeirut occupata militarmente nel 1976 con la benedizione Onu: Truppe Arabe di Dissuasione incaricate di pacificare la capitale che i notabili dell’Islam e i notabili cristiano-maroniti distruggevano armi in pugno. Strana pacificazione: militari e carri siriani ad ogni angolo mentre la ricostruzione era affidata alle braccia degli emigranti che arrivavano da Damasco, larve di uomini, dormivano nella sabbia dei cantieri dove erano quasi prigionieri. Intanto i militari di Assad facevano politica: allevavano gli Hezbollah, partito di Dio che ancora pattuglia parte della Bekaa e Baalbec, rovine che incantavano Proust. La Siria faceva politica senza averne titolo; assassinava quei politici libanesi che non sopportavano l’occupazione mascherata: Kemal Joumblat, leader socialista e principe della minoranza drusa e nel 2005 Rafiq Hariri, costruttore selvaggio, ex primo ministro dalla doppia cittadinanza libanese -saudita. Scandalo internazionale, tutti a casa: truppe disoccupate, migliaia di manovali senza lavoro. Senza contare che metà della popolazione ha meno di 15 anni e non sa cosa sperare.
Hama, Syria
Il potere degli Assad ha lavorato nell’ombra fino a quando, nel 1982, si è manifestato nel massacro di Hama, città sacra ai Fratelli Mussulmani che anche Assad figlio ha appena finito di mettere a ferro e fuoco. “Massacro” è la parola che raccoglie un dramma impossibile da precisare e le vittime si raccontano per numeri anche se i numeri non sempre misurano la realtà. Quante i morti di Aleppo, Homs, Hama? Centinaia, migliaia? Nessuno può contarli. Mezze Lune rosse al guizaglio e i giornalisti non possono avvicinarsi. Frontiere blindate. Ancora una volta i racconti viaggiano nella rete o con le ombre traballanti dei telefonini. Che non c’erano 29 anni fa quando Hama è stata bombardata la prima volta. Allora la repressione puniva chi non sopportava il “laicismo marxista “del presidente Assad padre. In quel gennaio ’82, vigilia di qualcosa, non era permesso ma neanche proibito arrivare ad Hama per raccogliere le voci dei Fratelli Mussulmani. In una piccola sala della confraternita dei Fratelli un avvocato sorrideva con orgoglio. “Siamo la città più antica del mondo, la sola che il Supremo potrebbe riconoscere se tornasse sulla terra “. I Fratelli si ribellavano al laicismo di stato e la folla era dalla loro parte. Diventa una città aperta, la terza per importanza del paese. La situazione precipita appena Assad “affida il paese a montanari violenti ed incolti che mai rispettano le regole di dio”. Sciti ed aluiti non piacciono all’avvocato dei Fratelli. Anche se i russi costruiscono un’acciaieria con 600 operai, la vecchia città e i suoi peredicatori mantengono il dissenso. Stava per succedere qualcosa e andavamo a raccontare le piazze rabbiose contro Assad che ha cambiato la costituzione: non è più necessario essere mussulmano per governare il paese. E i tradizionalisti si preparano a combattere il sacrilegio. Il piccolo avvocato racconta di comitati armati, giovani che abbandonano le scuole per allenarsi alle armi. “Non passeranno”. Lo ripete con solennità. Torniamo a Damasco, quaderni di appunti. Nessuno immagina possa succedere, invece succede. Tank in fila verso Hama. Provo a riprenderne la strada: niente permessi. Comincia a nevicare. Al poliziotto che affianca il bigliettaio suona strana la vacanza di un turista nel vento che rabbrividisce. Mani che frugano la valigia: scopo del viaggio? Mostro le macchine fotografiche: Palmira, perduta nel deserto, invece scendo a Homs. Per una somma da capogiro un taxista aluita fa marcia in dietro per 30 chilometri e mi abbandona ai margini della città assediata. Entro nel primo palazzo di riguardo: greco ortodossi. Spiano fra le imposte cosa succede. Quel poco che si vede fa paura. Proprio una guerra, aerei che bombardano mentre i carri armati marciano quasi dovessero bruciare postazioni di missili. Fuoco ad ogni angolo. Le case si aprono. I parà corrono a occupare le macerie. I miei ospiti improvvisati ripetono sottovoce il nome di chi le abitava. Contadini, un medico. Portano il caffè con le mani che tremano. Le donne vogliono sapere qualcosa e il capofamiglia risponde: “Noi non c’entriamo. Ce l’hanno con i mussulmani”. Ma appena moglie e figlie si allontanano, il suo discorso diventa amaro. “Siamo testimoni di una tragedia che vogliono segreta. Essere depositari di un segreto è la responsabilità che nessuno perdona “. Notte di scoppi, raffiche, il fumo soffia fra le imposte. Di buon mattino una figlia mi accompagna fra i campi verso la strada per Damasco. Guarda l’orologio: “La corriera passa fra mezzora”. Quando arriva scende un militare. Vuol sapere da dove vengo: “Dalla città “Chi ha incontrato?”. “Nessuno”. “C’era un polizotto sul bus?”. “C’era, non ha chiesto niente”. Ricopia il passaporto. Mi accompagna al bureau dell’albergo per controllare se chiedo le chiavi. Nel tempo vengo a sapere che i morti di quei giorni forse sono 15 mila, forse 25 mila: nessuno li ha contati bene. Sette anni dopo, estate che soffoca: “Andiamo ad Hama …”. Il taxista avvia il motore senza meraviglia. Non arrivo alla ruota del carillon, enorme giocattolo che pescava l’acqua dell’Oronte davanti alla finestra dove avevo trovato rifugio. Una nuova strada porta a Nuova Hama. Vecchia città proibita in mezzo ai campi. 29 anni dopo hanno ricominciato a bombardarla. Dopo Hama 1 e Hama 2, Assad figlio sta bruciando Hama 3.
Esther Kazan è stata giornalista della Abc e vive nel New Jersey. Scrive libri e collabora a vari giornali.