Chi è Ben, donne e pianoforti
Ben è di New York. Accorda pianoforti e cuori di donne, artista raffinato e amante impenitente. Sfidando i divieti governativi, con sotterfugi esilaranti e complicità mafiose, passa per il Messico e si reca a Cuba dove affina le corde dei vecchi pianoforti che l’embargo impedisce di sostituire. Il Muro tra il Messico e gli Stati Uniti segna una frontiera, sognata e crudele per molti immigrati latinos, in particolare per le donne. Quanti siano morti nel tentativo di penetrare come clandestini, per disidratazione, ipotermia, morsi di serpente o “incidenti” lungo la traversata, non è dato sapere. Oltre tremila, dicono le fonti ufficiali. Un numero pari a quello delle vittime dell’11 settembre 2001.
Ma questa ecatombe continua a succedere, lungo il Muro. Da vari decenni. Sono pochi gli occhi che li sanno vedere, prima che il vento ne ricopra le ossa. La sabbia finissima del deserto, flagellata dal vento, cancella le orme. È la terra che cancella il passo delle persone e rifiuta la memoria. Per oltrepassare il Muro, è lecito tentare di tutto, anche di sopravvivere. Ci prova Leonor, giovane artista cubana, che dopo un’ odissea sulle strade del Centro America, giunge finalmente nella città del Muro, a Tijuana. Questa città, che registra una delle percentuali di violenza e più alte del pianeta, è il punto strategico di una doppia circolazione migratoria: da un verso, i migranti latinos, sprovvisti di documenti, tentano di andare al Nord, speranza nell’American dream. In senso opposto, migliaia di statunitensi si dirigono verso Sud, nella certezza di “pasársela bien”, con l’organizzatissimo turismo sessuale di fine settimana.
I viaggiatori della notte
Ben sale sul bus. Come cicerone, c’è una ragazza meticcia di nome Sandra Xiltlía Itkil, con i capelli platinati e le sopracciglia alla matita come Marlene Dietrich; è impegnata a compiacere i passeggeri rafforzandoli nei loro stereotipi. Voce squillante, saluta tutti dicendo che mai nella sua lunga carriera si era incontrata con un gruppo così simpatico di persone, e che tutte sarebbero rimaste pienamente soddisfatte dall’ospitalità messicana o, in caso contrario, sarebbero state rimborsate. Risatine. Itinerario previsto: monumenti del centro storico, il Muro, cena in locale tipico con balli tradizionali e poi…a divertirsi. Applausi e fischi.
Ben si guarda attorno. Pochissime le donne e tutte sulla cinquantina. Gli uomini vengono da ogni dove degli States ma sono gli stessi maschi che si possono trovare – con altri passaporti e parlando altre lingue – in Tailandia, Brasile, Costa Rica, Kenya, Cambogia, Filippine e nelle altre rotte del turismo sessuale e della pedofilia. Un arcipelago di piccoli gruppi associativi in gita premio. Organizzati, gente perbene della provincia sana, lavoratori e padri di famiglia. Alcuni sono odontotecnici, pantaloni grigio verdi come asparagi, giacca bordeaux; altri sono impiegati della Universal Pictures, con la risata metallica; il gruppo più chiassoso è quello dei salumieri. Non manca il texano che continua a lisciarsi i capelli impomatati e l’altezzoso con aria da nuovo ricco: tutti simulano la massima felicità inforcando una macchina digitale e un telefonino con i quali mitragliano di foto qualsiasi cosa sia in movimento, particolarmente se di pessimo gusto. Non mancano i cani sciolti e quello convinto di essere Frank Sinatra e vuole il microfono per il karaoke.
Durante le numerose soste, scendono, camminano nervosi, fumando e bevendo. Guardano tutt’attorno insospettiti. Si tranquillizzano quando vedono che i maggiordomi sono neri. Nei centri commerciali a ventitré piani prendono l’ascensore, con ragazzino messicano incorporato. Sbirciano attraverso i vetri dei ristoranti sushi, tailandesi, italiani e cibo fusion, dove i commensali sono biondi e i camerieri meticci. Possono stare tranquilli: nei negozi di souvenirs, le venditrici sono indigene dalla pelle ramata. Constatato che il mondo è ordinato come deve essere, si rilassano. Negli internet points assistono a videoconferenze e chattano con varie persone alla volta con parole monche, quasi graffiti, che prescindono dalle vocali e ignorano la sintassi.
Si sparpagliano lungo l’avenida Revoluciòn, affettuosamente chiamata “La Revo”, fra bordelli di lusso con jacuzzi, raffinati ristoranti come il Tortas Ricardo con mariachis vestiti da Pancho Villa, discoteche, luci soffuse e maggiordomi neri in divisa alla porta del Hard Rock Cafè e di casinò come Las Pulgas, amministrati da indigeni Menominee del New Mexico, frequentati da estrosi miliardari, con una bottiglia di tequila Tres Reyes in mano, una Jessica Rabbit sul sofà e Manu Chao con la sua malegría: “Welcome to Tijuana / Tequila, sexo, marihuana”.
“A Tijuana è tutto un’esagerazione: le storie della gente, i fianchi delle ragazze”, pensa Ben.
Il Rìo Bravo, spiega Sandra, è una nauseante cloaca di detriti industriali e umani che purtroppo non arriva fino a Tijuana. ” Perciò, il bus ci porterà a vedere quello che sostituisce il Rìo Bravo: un fiume d’acciaio chiamato Muro”. Migliaia di piccole foto a colori di giovani donne sorridenti e di ragazzi con la camicia a fiori, incollate a croci appese sul Muro in una lunga via crucis di 38 km, diventano immediatamente l’obiettivo preferito dei flash dei turisti.
Alcuni di loro tornano ciclicamente lungo questo Muro, notano che ogni volta aumentano le foto e la sofisticazione tecnologica. Delle prime, non si sorprendono. Della seconda, si inorgogliscono.
I primi tredici km di Muro sono stati costruiti nel 1991 con alcuni rotoli di filo spinato e con i relitti delle piste mobili di atterraggio, usate dagli aerei di combattimento nel deserto del Kuwait durante la prima guerra del Golfo. A distanza di dieci anni, i turisti possono ora apprezzare un autentico Muro di metallo, in puro acciaio rinforzato, fra i due e i quattro metri di altezza, con colonne di dieci metri, costruite nei punti identificati come di maggiore afflusso migratorio, e dalle quali vigilano tiratori scelti dall’interno di guardiole a prova di mitra automatico.
Attualmente il Muro si snoda per 1.123 km, la seconda barriera artificiale al mondo per lunghezza, dopo la muraglia cinese, illuminata da fari ad altissima intensità, con sensori elettronici e visori notturni collegati con le sedi della polizia di frontiera statunitense. Qualcuno chiede, con certo disappunto, perché il Muro non sia stato elettrificato, al che Sandra replica che questa misura era sì presa in considerazione da parte delle autorità, ma che poi fu scartata al fine di evitare che ogni mattina i giornali pubblicassero le foto di gente stecchita per aria.
Tranquillizza i passeggeri, commentando che il Muro compie la sua funzione in forma efficace: inizia mare dentro, ossia parte da alcune centinaia di metri all’interno dell’oceano, dove le onde di straordinaria violenza hanno una profondità superiore ai 300 piedi; e da lì, si arrampica sui dossi di pietra e sabbia, passa per burroni e abissi, attraversa i pochi tratti pianeggianti di Tijuana, lambisce le montagne vicine, si estende, dopo molti km, sui 50 gradi Celsius delle dune del deserto, dove si riabbellisce con l’antico groviglio di filo spinato.
Ma è lungo il Muro d’acciaio dove i turisti possono fotografare le tecnologie di punta che identificano le presenze sospette di migranti, al punto di passare clandestinamente la frontiera: detectors di luci infrarosse o di calore umano, camere a circuito chiuso, allarmi luminosi che supportano il difficilissimo lavoro delle pattuglie della Border Patrol, diecimila guardie armate con 44Magnum nere, con manette lucide alla cintola, su pick-ups Cherokee in continuo movimento, connesse via radio con squadre di motoscafi di vigilanza ed elicotteri.
Il presidente dei salumieri chiede il microfono a Sandra e comunica di essere un componente dei Homeland Defenses Volunteers, ossia dei volontari della difesa civile della patria, gruppi paramilitari di vigilantes che, nel tempo libero, liberano i dobermann e danno la caccia agli immigrati con la documentazione irregolare, comunemente chiamati mojados, bagnati.
«Di sudore?».
«No, di paura».
Racconta che, tutte le notti, prima di andare a difendere la patria, i vigilantes cantano l’inno nazionale e ricordano il Patriotic Act; poi, battono il deserto sicuri che prima o poi accalappieranno un Bin Laden nascosto fra i cactus. Distribuisce a tutti i passeggeri un documento di due pagine, che gli è appena arrivato per Internet. Nella prima pagina, ci sono due foto: la prima riproduce le Torri Gemelle che crollano, la seconda un pompiere con un piccone rosso dipinto sul petto come un antico crociato, che grida disperato convocando i più eroici a liberare il santo sepolcro dalle grinfie del nuovo Saladino. Nella seconda pagina, i links dei Homeland Defenses Volunteers e i moduli di iscrizione.
Un orgoglioso architetto di San Diego interviene con precisazioni tecniche: «Il muro di Tijuana ha le sue repliche, con specifiche varianti, in ciascuna delle città importanti lungo la frontiera: Mexicali continua col reticolato trasparente; Nogales e Matamoros hanno piantato, fra loro e il deserto, pali con filo spinato, che ricordano i recinti. Da parte sua, Ciudad Juàrez è protetta da un muro d’acqua formato in questa zona dal Rìo Bravo, che con frequenza settimanale trascina i suoi affogati.»
Che sorpresa! Sul bus c’è anche un pastore metodista, ex cappellano militare nella prima campagna in Iraq; con la grazia di un giocoliere del pulpito, enfatizza che i tratti di questa infinita frontiera cambiano in rapporto alle caratteristiche dell’ecosistema e al grado di vulnerabilità, ma tutti rispondono ad un unico criterio di chiarezza. Nel lato sud, in Messico, abita il dubbio. Il dubbio che, in quella macchia indigena e meticcia che vagabonda attorno al Muro, si rintanino contrabbandieri e ladri, si nascondano narcotrafficanti, si annidino terroristi islamici affiliati all’Asse del Male, si mimetizzino puttane con l’AIDS, transessuali sodomiti e drogati.
Il dubbio, soprattutto, che si infiltrino mojados, immigrati intenzionati a cercare un lavoro qualsiasi, particolarmente in zone che appartennero al Messico e che furono annesse alla forza dal glorioso esercito di valorosi soldati azzurri: California, Arizona, Nuevo México e Texas. Nel lato nord, dice il pastore metodista, riposa la certezza che sul biglietto di un dollaro campeggia Dio. Applausi.
Sandra commenta che l’Operation Gatekeeper, attiva alla frontiera fra San Ysidro e Tijuana, serve non solo come modello per altre zone di frontiera del territorio statunitense, come il programma Hold the Line in Texas o Safeguard en Arizona, ma anche come esempio internazionale per paesi come la Corea del Sud, in previsione degli eventuali afflussi migratori dalla Corea del Nord.
La Spagna ha imparato la lezione che viene dalla patria di Lincoln e, per ora, protegge le sue colonie africane circondando di filo spinato Ceuta e Melilla al fine di frenare coloro che fuggono dalla desertificazione e dai massacri nel Darfour.
Dove sicuramente è stata valorizzata l’esperienza di Tijuana è in Israele, lungo i 700 km proiettati di Muro, in costruzione sulla chiamata Linea Verde in Cisgiordania con l’obiettivo di contenere i kamikaze palestinesi. Nemmeno questo Muro segue una linea retta, come si potrebbe supporre secondo una logica di sicurezza, bensì si snoda in circonvallazioni come un Rìo, avvicinandosi ed allontanandosi dalla Linea Verde come un serpente, inglobando parte dei territori palestinesi, -casualmente – i terreni più fertili, le piantagioni di olivo più consolidate e gli insediamenti umani più efficienti.
«È una questione di security» opinano alcuni passeggeri del bus.
«Certo, ma con quello che è successo oggi alle Torri Gemelle di New York, bisogna scatenare attacchi preventivi, for Christ’s sake» concordano tutti.
Seduto in uno degli ultimi posti del bus, vicino ad un passeggero ripiegato su se stesso, forse addormentato sotto un enorme sombrero bianco, Ben non riesce a spiegarsi perché si sia fatto coinvolgere in questo tour by night. Forse saranno state quelle parole udite sul marciapiede di fronte all’hotel: “Mi hanno detto che anche tu sei di New York”, pronunciate con l’accento del suo quartiere.
Arrivano al ristorante turistico; tutti corrono verso la sale del buffet, come se non toccassero cibo da una settimana, con l’ansia del naufrago che trova l’ultimo resto galleggiante del Titanic.
Vengono subito svuotati tutti i boccali di birra allineati sul tavolo d’ingresso. Dal ballatoio sopra la sala, piovono stelle filanti multi colorate, ovunque ci sono mascherine, torte, salatini, e possibilità di farsi fotografare – a soli 5 dollari- con una ragazza travestita da Pancho Villa con tette rivoluzionarie al vento, che sparge coriandoli.
Alle pareti, bandiere messicane e palloncini; vengono distribuiti fischietti e matracas, e tutti si danno da fare per far credere che si divertono. I tavoli traballanti decorati con fiori di plastica sono disposti in semicerchio attorno alla pedana di un’orchestra che li accoglie con Amor a la mexicana, cantata da una Thalía locale, mentre i mariachis di Guadalajara accordano i chitarroni. Birra, please, si sente urlare più volte. Accanto ad ogni piatto, c’è la carta dei vini e l’indicazione che lo spettacolo di sexo al rojo vivo inizierà a partire dalla mezzanotte, nel BarBilonia.
Ben informa Sandra di non sentirsi molto bene, e prende l’ennesimo taxi, che lo lascia fra la calle del Planetario e quella del Museo de las Identidades Mexicanas. Osserva la velocità impressionante del traffico, la frenesia della gente. Tijuana non dorme mai. La lotta dei galli in filigrana d’argento, le cinture di cuoio, i piatti di ceramica, il cristallo soffiato, i mobili di ferro battuto, le collane di giada e turchese, i ricami otomíes di Tlaxcala, i vestiti huipil amuzga di Xochistlahuaca, le borse di donne cucapàs della Baja California, si vendono come pane caldo, così come i prodotti esposti nei Grandi Magazzini Sambons. Il regno del Dio informale è un formicaio di creatività. Si comincia al mattino presto e non si smette più.
Tutto gira attorno al Muro, attraversato quotidianamente da un flusso di merci di 750 milioni di dollari e da un flusso umano di almeno un milione di persone. Il 66% è di origine messicana. Convivono sullo stesso marciapiede le professioni più antiche e le tecnologie di avanguardia. Circola il migliore contrabbando della Terra, si costruisce di tutto, si aggiusta qualsiasi tipo di elettrodomestico e di pistole. Il mercato è diffuso ovunque; si vende qualsiasi cosa, anche legalmente, con le dovute ricevute fiscali perfettamente falsificate.
I ragazzi frequentano corsi in mille accademie che promettono diplomi e titoli. Esibiscono magliette di colori intensi, qualcuna con scritte accattivanti: “Le ho toccato il sedere e la morte sorrise, Jim Morrison”. Si muovono fra appunti fotocopiati, fumi di cotenne di maiale fritte in lardo, e di poc-chuc (involtini fritti ricoperti con salsa di cipolle, arancia amara e limone). Ogni giorno sbrigano due o tre lavoretti, contemporaneamente, oltre a fare servizio di taxi in macchine affittate.
Nel tempo libero, affollano le discoteche ricavate da vecchi garages, sudano in locali dove lo strip-tease integrale e il sexo en vivo è 24 ore su 24. Integrano bande musicali dai nomi eloquenti: MasturBanda, Leusemia, TurboPòtamos. Tutti vociferano, offrono qualcosa, vendono presepi, stelle comete e pini metallici con luci colorate squillanti, frutti come il zapote e il pompelmo, pentole, camicie, stivali di cuoio, fruste, carta igienica, medaglie miracolose.
Ad un prezzo accessibile, si possono comprare DVD pirata dai film dell’orrore gore coreano. Molto ricercati, gli snuff movies, il Santo Graal del terzo millennio, prerogativa di pochi imperatori con molti dollari, euro o rubli. E’ merce pregiata per intenditori: sono i DVD che riprendono orge di sesso e di stupro, e si concludono con la morte violenta della donna, pugnalata o strangolata. E forse, in qualcosa si assomigliano alcune vie chiassose di Tijuana a quelle che portavano i gladiatori -tutti “morituri te salutan” – del Colosseo. Lì cominciò lo zapping estremo, quello del pollice all’insù o all’ingiù, che nel 2010 decide il destino finale di molte donne latine, ogni notte a Tijuana.
Sui marciapiedi, i passanti negoziano il prezzo dei panettoni con marche italiane, e bevono mezcal, una specie di grappa estratta dall’àgave, o margarita, a base di tequila, cointreau e limone. Agli angoli, c’è un tavolino con passaporti rubati, pronti all’uso. Edizioni pirata degli ultimi best-seller, copie DVD dei più famosi cantanti del mondo e dei successi di Hollywood, Bollywood e Cinecittà. Giacche “Gil Sander”, a prezzi ridicoli: tutta l’accurata precisione dei pirati dei Caraibi al servizio della democratizzazione della cultura, dell’arte e dell’alta moda.
I cerchi periferici di Tijuana hanno un volume quotidiano di scambi commerciali per milioni di dollari grazie al narcotraffico di cocaina e marijuana, sono la base elettorale decisiva per tutti i candidati politici messicani. L’informalità è la loro economia parallela, che diventa reale, perché è possibile sopravvivere se lavori come un folle sempre.
Musica elettronica nel cerchio spumeggiante di internet points e dei monumenti ai soldi facili: le slot-machines popolari amministrate da indigeni Mohegan del New Mexico, dove donne sole e pensionati sussurrano e confessano a macchinette sfavillanti la loro situazione economica, argomentando il proprio bisogno di vincere. Così facendo, inseriscono nella fessura nera delle fiches colorate che rappresentano le ultime monete mensili. Alla porta vigilano guardiani armati, come a Las Vegas.
A Tijuana, non manca la musica sacra con senso ecumenico: Alleluya, dalle cinque del pomeriggio fino alla mezzanotte, nello stesso locale affittato a quattro diversi gruppi evangelici Aleluya, Aleluya, Aleluya, Aleluya. Il sabato e la domenica, l’affitto inizia alle otto del mattino e si possono alternare fino a nove modi diversi di credere nell’imminente Apocalisse.
Gli uffici degli avvocati e delle ONG internazionali chiudono alle sei di sera; quelle di Caritas e Misereor lavorano fino a tardi, come i nottambuli saltimbanchi, i mangiafuoco, i violinisti col cappello per la mancia, le zingare che leggono il futuro. Le donne servono, su piatti di plastica, il burrito, una combinazione di fagioli, formaggio e pollo, speziata con abbondante chile piccante in una tortilla di grano. O tacos y enchilada, con gli stessi ingredienti ma avvolti in una tortilla di mais. Huevos estrellados, uova fritte. Huevos rancheros, uova fritte con salsa di pomodoro e tortilla. Huevos rancheros a la mexicana, uova fritte con cipolla, chile, aglio e pomodoro.
Sui tavoli del ristorante Perico’s, all’angolo della calle 123, gli uomini della famiglia narcotrafficante di Arellano Félix mangiano pollo con patatine fritte; parlottano fra di loro mentre pisciano litri di birra nella cabina telefonica, esattamente come succede a New York, nelle streets senza lampioni attorno a Riverdale, nel Bronx.
“Ogni quartiere di Tijuana ha una musica diversa”, pensa Ben, e guarda in alto all’orizzonte, dove appaiono le luci dei tuguri aggrappati alle falde spellate delle montagne.
Ci vivono i più miserabili. Loro, a differenza di quanti si agitano lungo le strade secondarie del centro, sono sprovvisti anche della speranza di andare al otro lado. Non hanno alternativa, la loro condanna è senza appello: restare in patria, con la santa bandiera degli eroi nazionali, la telenovela notturna “Sabor a tì”, la sbronza settimanale con tradizionali botte da orbi alla moglie, e la processione annuale del santo patrono.
Perché la banda musicale dei settori popolari ha la combinazione di strumenti di metallo e di percussioni, che permette di suonare di tutto: musica spensierata, cupa, funebre, sacra e balli popolari. Perché tutto ciò che suona, suona a marcia, marca il passo. Perché l’importante è echar pa’lante (tirare avanti) ad ogni costo. Il tamburo è lo strumento principale, poi c’è il basso, la tromba, i piatti e il trombone. La gente cammina e ascolta sempre lo stesso tema in diversi stili. La percussione unisce, marca il passo.
L’assetto musicale è fatto in modo tale che ogni persona si muove quando ascolta una banda. Per questo, quelli dell’ultimo girone hanno sviluppato una straordinaria fantasia per ” tirare avanti”; ogni mattina cercano un lavoretto qualsiasi, e lo accettano, anche se legale. Bevendo un bicchiere di birra, cantano El Rey: “Con soldi e senza soldi / faccio sempre ciò che voglio / e la mia parola è legge; / Non ho trono né regina, / né nessuno che mi capisca, / ma sono sempre il re. / Una pietra nel cammino /mi insegnò che il mio destino / era rotolare e rotolare, / rotolare, rotolare e rotolare. / E poi mi disse un mulattiere / che non occorre arrivare per primi, / ma bisogna saper arrivare”.
Una volta brilli, si abbracciano cullandosi al ritmo della Rancherita. Ma la banda popolare può anche accompagnare Shakira che canta per loro: Non si può vivere con tanto veleno / Non si può dedicare l’anima / ad accumulare tentativi. / Pesa di più la rabbia del cemento, quando la tubercolosi dorme su cartoni, in una capanna di pareti ricavate da borse di plastica nera usata per la spazzatura de La Revo, che ondeggiano al vento dell’oceano.
Al secondo piano di una casa in eterna costruzione, c’è un annuncio: Exàmen ràpido de embarazo (“esame veloce di gravidanza”, cioè cliniche abortive clandestine). Ricorda un quadro di Frida Khalo: un’adolescente in una pozza di sangue su un letto di ferro, che pare volare, e il feto sospeso che, espulso, se ne va all’orizzonte.
Come in tutto il mondo, ci sono casi di giovani ragazze madri che ammazzano i propri piccoli. Ma qui c’è una forma particolare, usano il veleno per topi. Lo dissolvono nel latte. Così prosegue il rapporto primario fra madre e figlio, perché chi l’ha allattato, lo uccide con il cibo, con lo stesso vincolo di Parole significanti: “Òrale, come, mi amor, come, coraggio, amore, mangia”.
Chiamano angelitos questi bambini, denutrite farfalle appena uscite dalla crisalide. Ci sono vecchi pneumatici sulle falde delle montagne attorno a Tijuana per trattenere le frane provocate dal vento dell’oceano.
E, per celebrare il lutto nel giorno dei morti, impiccano alle porte delle case le calaveras (teschi) zucche vuote che ridono burlescamente. E appendono ai rami della pianta del mamey, ispirazione del disegnatore José Guadalupe Posada, gioviali scheletri di cartone, che ballano, bevono, si fanno battaglia sui cavalli. Addirittura seducono, come la sexy Catrina, che lascia intravvedere una gamba ossuta dalla gonna. Danno il benvenuto all’entrata dei locali, e ti mandano a quel paese se fingi di non vederli. I bambini si entusiasmano per i teschi di zucchero o per le bare di cioccolata. Per i tarascos, i defunti possono tornare a casa loro un giorno all’anno per visitare i propri cari. Un viaggio fulmineo dal mondo parallelo del Cumiehchùcaro. In ogni casa si prepara un arco di calendole come porta simbolica comunicante con l’aldilà e, davanti ad esso, un piccolo altare con tamales, frutti, mais, sale, e soprattutto caraffe d’acqua, perché gli spiriti arrivano stanchi morti dopo la lunga traversata. La morte, come qualcosa di familiare, autoironica e tenera compagna, grande ballerina e amante.
È una mezzanotte come tante, questa dell’11 settembre 2001, a Tijuana. Come ogni sabato sera, i turisti americani affollano il BarBilonia. Si sentono le note di Es tan difícil amar. È incredibile come un assolo di chitarra possa, da solo, dirti – come nessuno- che è così difficile amare. Girato l’angolo, certamente qualcuno sta ascoltando La Marcia Turca di Mozart e la versione heavy-metal del Fauno Raudo, suonata dalla banda argentina dei Rata Blanca, e sussurrata da Walter Giardino, quel figlio di Medea, agghindato come un eroe medievale o un angelo gotico. Musica ovunque. Ciascuno con la propria. Che si siano notizie buone e cattive, non importa: che sia musica!
Musica è fiesta, una parola che non significa necessariamente allegria. Fiesta, per rilassarsi. Fiesta, perché te comería con ropa y todo, ti mangerei con vestiti e tutto. Per attrarre i clienti, per celebrare un successo. Per rimuovere una disgrazia, per sigillare un matrimonio, festeggiare un divorzio. Per ricordare, per dimenticare. Per fare scoppiare d’invidia i vicini, per morire di nostalgia o affogarsi in progetti. Per chi parte verso San Diego, per chi torna da Los Angeles. Fiesta, perché la crisi è sempre più crisi. Fiesta, perché le persone sono più grandi dei loro problemi. Fiesta, e arriva Fernando Botero con la sua banda di musicisti grassi di speranza, e le donne dalle curve abbondanti di affetto. Fiesta, per cantare alla puttana felicità. Fiesta, perché è una notte come tutte anche questa dell’11 settembre 2001 e, di notte, si butta la casa fuori dalla finestra, come sempre. Chiudi gli occhi, amico mio, e non fare domande perché non ci saranno risposte. Solo fermento fra le gambe e un dissonante concerto di tremula carne.
Ai piani superiori del BarBilonia, le prostitute bambine vengono infilate nelle stanze e il cliente può scegliere con calma, sorseggiando una coppa di Chateau Montchenaut. Si possono affittare appartamenti di varia metratura per i festini di gruppo con quindicenni con la tuta da marines o, a piacere, con la divisa nazista. Chi dispone di meno dollari e non sniffa cocaina, come Ethan e Justin, si accontenta di qualche mano morta alle pattinatrici, cameriere in minigonne di cuoio, che servono insalata di melone affogata in liquore d’arancia, lasciando il loro biglietto da visita con il nome di battaglia da escort e il numero di telefonino. Sul palcoscenico si cavalca l’eterna canzone di Joe Cocker, You can leave your hat on. Si alternano Zussana, Alonso e Deby in un trio di acrobazie sessuali; seguono le pattinatrici Melisa e Roxy; Héctor, Iracema e Lalo in una piscina di fango e lingue. Seth brinda alla sua preferita, Bibiana, vestita da poliziotta, e le fa il gesto di andare insieme nel separè a 100 dollari.
Nella discoteca Zoo, con sconti per donne, Jessie è nervosa, e fuma una Capri mentolato dopo l’altro: «Quando arrivano i BAD BOYZ?». Si scioglie i capelli mogano N.27, e chiama con il telefonino quell’inutile di Britanny, che è chiusa in bagno da un quarto d’ora. Sette margaritas dopo, tutte le amiche di Jessie sono sedute vicine, scaldando i motori per divertirsi un mondo. Macey commenta che è già al secondo livello di cardio strip nella palestra; che le danno un po’ di fastidio i tacchi 11 ma che l’esercizio “ti tocco-non ti tocco, tu mi guardi e non mi tocchi, tu ti tocchi guardandomi ” del gym tantra rafforza gli addominali suoi e di Usmaìl, il giardiniere chicano (di ascendenza messicana) che fa servizietti alle turiste in cambio di regalini.
Kelly si inonda per ultima volta di profumo XS di Paco Rabanne, e confessa:
«Vorrei imparare la lap gym, ma sono timida: meglio fare il corso a casa col DVD “Scatena l’animale sessuale che c’è in te”. Se non lo scateno adesso, non lo scateno più! ».
E ad interrompere le risate arrivano loro, i cinque diavoli portoricani, gli inimitabili BAAAAAD BOOOOYZZZZZ, sbraita Samara Marusix, un transessuale vestito da sposa che scompare in fretta dal palcoscenico, travolto da una mandria di gladiatori e motociclisti col culo all’aria, ballerini e sergenti avvolti nella bandiera nazionale: chi paga di più, può dare una sbirciatina al fucile. Il pubblico si galvanizza e strilla come tifosi allo stadio, ma con note più acute. Qualcuno arrossisce e finge di tapparsi gli occhi con un depliant di informazioni turistiche. Una neo-pensionata sparge birra sui pettorali di Yonny, il mulatto vestito da cameriere.
Quello biondo, travestito da pompiere, si toglie le bretelle e mostra una lingua polposa e rosa. Cantano in playback la canzone di Beyoncé, Bootilicious. Sfoggiano sorrisi brillanti di bicarbonato, dorsali da Ben Hur rematore, gambe da Ronaldinho. “Sono così dionisiaci che devono essere gay”, pensano le presenti. Quando le meno miopi distinguono un tatuaggio sulla chiappa di Màrtin, dedicato a Conrado, decidono di essere pratiche: si infilano nel suo camerino e, uscendo visibilmente soddisfatte, rubano qualche souvenir: un cappello di capitano, un tanga viola. Da parte loro, Albertico e Dayron, entrambi in completo maculato, si lasciano graffiare un po’ il petto e scrivere numeri di telefonini sul ventre di marmo. Sono le quattro di notte ma sono ancora aperte de agenzie turistiche per Acapulco, per il carnevale di Tlaxxala, per la piramide della Luna a Teotihuacàn, per Cozumel, l’isola corallina in forma di lacrima, a 71 km da Cancùn. I negozi luccicano con gli stessi prodotti dell’aeroporto Charles de Gaulle.
Sta per finire la notte e nessuno ha cacciato il pitone. Qualcuno compra ancora playstations per il figlio cicciobomba, CD rock per la figlia undicenne, senza sintomi di seni, con i laccetti nei capelli; nelle piste da ballo, texani ubriachi con odore a petrolio ballano la cumbia con i passi di Shakira appresi in un’accademia per la terza età; gigolò in abiti da torero si lasciano abbracciare da signore in avanzata menopausa; gli uomini continuano a rispondere al cellulare mentre, ancora una volta, si fanno maltrattare da fisioterapiste osè, prima di rimettersi in viaggio verso gli States ed essere a casa, domani, giusto in tempo per celebrare la funzione religiosa nel tempio metodista.
(Tratto da Romanzo di frontiera, Albatros Editore)
Specialista in cooperazione internazionale. Autrice di "Romanzo di frontiera" (Albatros, Roma 2011), magia e realtá delle donne latinoamericane alla frontiera Messico-USA; "In Amazzonia" (Milano, Feltrinelli, 2006); "La Ternura y el Poder" (Quito, Abya Yala, 2006); "Una canoa sul rio delle Amazzoni: conflitti, etnosviluppo e globalizzazione nell'Amazzonia peruviana" (Gabrielli Editore, Verona, 2002); co-autrice di "Prove di futuro" (Migrantes, Vicenza, 2010).