Molto spesso tocca al mondo dell’arte (cinema e teatro soprattutto) ridare vita a figure o eventi importanti che le istituzioni e la cultura ufficiale (dalla televisione al mondo della scuola e dell’università) non sono state in grado – o non hanno voluto – mantenere vive. Tanti esempi: da Basaglia a Enrico Mattei, da Perlasca a Mario Rigoni Stern, da Don Milani a Don Zeno Saltini, dalla Risiera di San Sabba al Vajont, da Marzabotto a Sant’Anna di Stazzema.
Non sempre, dal punto di vista storico, questo meccanismo ripropositivo ha sortito risultati positivi, ma rimane il fatto che la nostra nazione ha fatto della memoria storica un optional e dell’oblio lo sport nazionale. I nostri ragazzi oggi sanno poco, niente o male del nostro recente passato. Ma sia ben chiaro che la responsabilità non può essere attribuita a loro che altro non sono che l’implacabile specchio del fallimento quasi totale delle generazioni precedenti (la mia e quella dei nostri genitori).
Pochi giorni fa è scomparso Don Camillo De Piaz, che insieme a Padre Turoldo portò avanti a Milano l’esperienza della Corsia dei Servi. Nonostante la grande levatura etica, morale e politica la sua scomparsa è stata accompagnata dal silenzio quasi assoluto.
Sembra sia stato proprio Padre Turoldo a suggerire a Danilo Dolci nell’immediato dopoguerra di recarsi a Fossoli per condividere l’esperienza di Nomadelfia dove, all’interno di quello che era stato uno dei più terribili campi di internamento in Italia durante il fascismo, Don Zeno Saltini ospitava bambini di strada o orfani di guerra. Nell’Italia del dopoguerra, in cui regnavano la miseria e la fame, si cercava di offrire alle creature, insieme al pane, a un tetto per ripararsi, a dei vestiti per coprirsi, l’istruzione. Don Zeno tuonava contro coloro che nel brevissimo arco di pochi anni avevano dimenticato i presupposti etici che erano stati alla base della Lotta di Liberazione e poi della Costituzione.
Se si vuol comprendere bene chi era Danilo Dolci, bisogna partire da figure come quelle di Padre Turoldo, Don Zeno Saltini, Don Camillo de Piaz, in cui certo cattolicesimo ha trovato un connubio meraviglioso con le menti più elevate dell’impegno sociale laico.
Nella sua vita di sociologo, attivista, pacifista, Danilo Dolci fu a contatto ed ebbe, a diversi livelli ovviamente, collaborazioni con figure di questa levatura: Elio Vittorini, Giorgio Napolitano, Norberto Bobbio, Giorgio Capitini, Furio Colombo, Carlo Levi, Bruno Zevi, Padre David Maria Turoldo, Don Zeno Saltini, Bertrand Russell, Jean Paul Sartre, Luca Cavalli Sforza, Giacomo Manzù, Aldous Huxley, Erich Fromm, Vittorio Gassman, Furio Colombo, sir Laurence Olivier, Joan Baez, Piero Calamandrei, Ferruccio Parri. Fu più volte candidato al Premio Nobel per la Pace, ottenne numerosissimi riconoscimenti, attestati e premi (fra cui il Premio Lenin). Eppure di Danilo Dolci e del suo operato rimane poco o nulla.
Nato a Sesana (vicino a Trieste), Danilo Dolci si trasferì giovane con la famiglia a Milano, dove fece i primi studi. In seguito partecipò (anche se in modo marginale) alla Resistenza. Nell’immediato dopoguerra (dopo l’esperienza di Nomadelfia) si recò a Partinico, a pochi chilometri da Palermo. Il padre aveva fatto il ferroviere e aveva vissuto per un periodo in quella località, della quale Dolci ricordava soprattutto la miseria spaventosa. E proprio per debellare l’arretramento e la miseria di quelle popolazioni e di quelle terre si recò lì. Il primo episodio che proietta a livello nazionale le sue famose proteste pacifiche è uno sciopero della fame portato avanti nello stesso letto dove era morto di fame un bambino.
Quello fu solo l’inizio di un lungo percorso che portò Dolci a affrontare tantissimi problemi e tematiche scottanti: dalla mancanza cronica dell’acqua, alla mafia, dalla politica – spesso collusa con la mafia – alla scuola, dalla pace alla libertà, dalla giustizia ai nuovissimi mezzi di trasmissione di massa. Fu sicuramente uno dei primi a comprendere la pericolosità del fenomeno berlusconiano: Il cavaliere frottola imperterrito/ virali frottole per adescare/la gente sempliciona.
Di Dolci e della sua opera si potrebbe parlare per giorni, ma tengo a mettere in risalto un aspetto. Il suo lavoro prendeva avvio soprattutto dalla maieutica, termine forse un po’ roboante per esprimere un concetto molto elementare: prima di affrontare questo o quel problema, Dolci si metteva attorno a un tavolo per ascoltare la gente del posto. Interminabili pomeriggi passati in compagnia di contadini e di pescatori, donne e uomini cui solitamente non veniva (e a tutt’oggi non viene data) voce per un motivo molto semplice: essendo le prime vittime dei soprusi della mafia, dei ricchi proprietari terrieri, dei politici corrotti dei mafiosi, conoscevano benissimo i responsabili di quei soprusi, conoscevano nomi, cognomi, indirizzi e tutti i meccanismi che permettevano agli uomini di potere di imporre tutte le nefandezze. Le sue estenuanti ricerche sul territorio condotte in collaborazione con un ristretto manipolo di coraggiosi, andrebbero non solo rilette ma soprattutto riprese come modello per interpretare la realtà che ci circonda.
La famosa diga che grazie a Danilo venne costruita sullo Jato e che avrebbe rivoluzionato la vita di tutta quella area, non fu un’idea sua ma di Paolino, un contadino al quale venne in mente che sarebbe stato utile costruire u’ bacile (un grande secchio, una diga).
Durante un processo subito per uno sciopero pacifico a difesa di Dolci, in veste di avvocato venne da Roma Piero Calamandrei. La sua arringa (sarebbe stata l’ultima in un’aula giudiziaria) meglio di ogni altro riesce a tracciare il profilo di Danilo Dolci:
“Qui e fuori di qui siamo in molti a pensare e a ripetere che la cultura, se vuole essere viva e operosa, qualcosa di meglio dell’inutile e arida erudizione, non deve appartarsi dalle vicende sociali, non deve rinchiudersi nella torre d’avorio senza curarsi delle sofferenze di chi batte alla porta di strada. Tutto questo lo diciamo e lo scriviamo da decenni; ma tuttavia siamo incapaci di ritrovare il contatto fraterno colla povera gente. Siamo pronti a dire parole giuste, ma non sappiamo rinunciare al nostro pranzo, al nostro comodo letto, alla nostra biblioteca appartata e tranquilla. Tra noi e la gente più umile resta, per quanto ci sforziamo, come uno schermo invisibile, che ci rende difficile la comunicazione immediata. Il popolo ci sente come di un altro ceto: sospetta che questa fraternità di parole sia soltanto oratoria. Per Danilo no. L’eroismo di Danilo è questo: dove più la miseria soffocava la dignità umana, egli ha voluto mescolarsi con loro e consolarli non coi messaggi ma colla sua presenza; diventare uno di loro, dividere con loro il suo pane e il suo mantello, e chiedere in cambio ai suoi compagni una delle loro pale e un po’ di fame. Questo intellettuale triestino, che se avesse voluto avrebbe potuto costruirsi in breve, coi guadagni del suo lavoro di artista, una vita brillante e comoda in qualche grande città e una casa ricca di quadri e di libri, è andato a esiliarsi a Partinico, nel povero paese rimasto impresso nei suoi ricordi di bambino, e si è fatto pescatore affamato e spalatore della trazzera per far intendere a questi diseredati, colla eloquenza dei fatti che la cultura è accanto a loro, che la sorte della nostra cultura è la loro sorte, che siamo, scrittori e pescatori e sterratori, tutti cittadini dello stesso popolo, tutti uomini della stessa carne. Egli ha fatto quello che nessuno di noi aveva saputo fare. Per questo sono venuti qui da tutta Italia gli uomini di cultura a ringraziarlo: a ringraziarlo di questo esempio, di questo riscatto operato da lui, agnus qui tollit peccata di una cultura fino a ieri immemore dei suoi doveri”.
Renato Sarti, Teatro della Cooperativa. Il suo spettacolo "È vietato digiunare in spiaggia - ritratto di Danilo Dolci", prodotto dal Teatro della Cooperativa, è andato in scena nel 2007 al Teatro Valle di Roma e in seguito al Teatro della Cooperativa di Milano. Scritto da Renato Sarti e Franco Però. Regia dello stesso Però, con Paolo Triestino. Il testo tratta soprattutto del famoso processo che Dolci subì per aver organizzato lo sciopero alla rovescia il 2 febbraio 1956. I manifestanti agirono in modo assolutamente pacifico, sistemando una vecchia strada impraticabile. L’azione nonviolenta non fu portata a termine per l’intervento delle forze dell’ordine. Dolci fu incarcerato, processato e, nonostante l’arringa di Calamandrei, condannato. Un paradosso, che si fa teatro, capace di evocare attraverso i piccoli fatti i grandi dilemmi dell'Italia di allora.