Di ritorno da un Iran che non c’è più
21-07-2009
di
Filippo Senatore
Foto: www.indika.it
Sono tornato sette settimane fa, eppure sfogliando il diario di viaggio mi accorgo di aver attraversato un Iran che non c’è piu. La storia è improvvisamente cambiata ed è cambiata la vita della gente incontrata e il mio racconto si trasforma nei ricordi di una terra di confine. Il confine che divide la speranza di chi sperava nella democrazia dalla violenza dei dignori che non vogliono perdere il potere. Dopo avere sentito gli ultimi comizi a Teheran rieccomi in Italia. Ho lasciato una società in apparenza tranquilla. Le famigliole di sera prendevano il fresco nei parchi cittadini che traboccavano di rose. I giovani facevano i soliti esercizi ginnici. I bazar erano pieni e al mattino si consumava il solito the bollente con lo zucchero in granuli. Il suono dei martelli degli staderari riecheggiava secco nei vicoli del bazar. L’odore del rame si mescola con quello del pane sfornato. Osservi per strada e vedi soprattutto ragazze e ragazzi.
In Iran ci sono tanti giovani (sono la maggioranza della popolazione) con meno di trent’anni, nati durante il regime che non hanno mai conosciuto la libertà. La Repubblica islamica dell’Iran ha creato un paradosso: il potere politico si legittima in nome della religione. Ha istituzioni elette a suffragio universale (enti locali, parlamento e presidente) ma la costituzione iraniana attribuisce alla guida suprema(Khamanei dal 1989) e ai dodici capi religiosi un’autorità su tutte le istituzioni statali, vale a dire un potere assoluto dal sistema giudiziario all’amministrazione pubblica.
La guida suprema ha potere di veto su tutto, dalle leggi alle candidature elettorali.
Si comprende come giocano soprattutto le dinamiche economiche di un Paese con una scuola pubblica di buon livello e buone prospettive di crescita frenate da un’inflazione galoppante a due cifre.
Ho potuto verificare di persona un mese fa una serie di segnali molto forti contro il regime.
Ricordo che al Museo archeologico di Teheran soprattutto le ragazze che chiedevano agli stranieri notizie delle democrazie occidentali.
Alcuni studenti universitari domandavano come li vediamo noi. E di fronte a una piccola esitazione capivano il nostro scetticismo verso un regime autoritario. Gli ho posto alcune domande che alla luce degli avvenimenti di oggi sono superate. Altre domande come: “Il coraggio di reagire di fronte ad una verità imposta dal potere teocratico gabellata per legge divina, senza possibilità di critica è plausibile per una persona di buon senso?” Conviene non mettere le risposte per evitare noie agli attuali manifestanti.
Si rischia la pena di morte o essere colpito da uno sciagurato cecchino basiji come la povera Neda uccisa a sedici anni sui marciapiedi di Teheran.
Nella splendida città di Isfahan si notano nei luoghi pubblici solo le foto del supremo Khamanei e del defunto Khomeini con uno sfacciato fotomontaggio. Ahmajaidin comincia a mettersi tra i due nei manifesti pubblicitari elettorali. Durante un giro a Yadz un guardiano della rivoluzione mi ferma e mi interroga in perfetto inglese. Cosa faccio in Iran? Il turista. Il mio lavoro? Impiegato. Domande personali per farmi cadere in qualche tranello, ma poi la spia capisce che sono molto evasivo e desiste. Nella scuola coranica di Tabriz un guardiano della rivoluzione in moto profana il silenzio religioso con il motore acceso, entrando con sfacciataggine sino al cortile interno dove un giovane religioso sta leggendo il Corano. Nessuno osa protestare. Il religioso rimale impassibile a testa bassa. Un gruppo di ragazze ci ferma ad Hamadan. Hanno un grande bisogno di comunicare: pur portando il velo, studiano e sono più brave dei maschi. Scherzano e ridono felici. La nostra guida con fare villano rifiuta di tradurre le domande delle ragazze poi in maniera brusca dice qualcosa in farsi. In pochi secondi le ragazze si congedano con il viso triste. Dopo un minuto arrivano i maschi palestrati che cercano anche loro di parlare.
Stranamente la nostra guida traduce le richieste dei ragazzi. Vogliono regalare sigarette ed offrire da bere. Ma decliniamo l’invito educatamente. In un ristorante di Teheran ho notato una ragazza ribelle che gioca a togliersi lo chador con un eleganza ed un ardire che ricordano la scrittrice George Sand, compagna di Chopin. Mi guarda e sorride. Vorrebbe raccontare tante cose di sé e del suo Paese. Si avvicina al tavolo e chiede a una donna del nostro gruppo ( e difficile che si rivolgano direttamente agli uomini) da dove veniamo. Abbassa la testa e ricadono delle ciocche bionde sulla spalla. Fatima, così si chiama la studentessa, afferma con orgoglio che sta per laurearsi in ingegneria. In un volo interno da Tabriz e Teheran una ragazza vestita in modo molto tradizionale con il velo nero, dice di essere una dentista e che sta andando a un congresso di medicina. E’ una privilegiata. Ma abbassa la testa. “La vita per noi donne è molto dura”. A ripensare che quei volti lieti della meglio gioventù persiana siano sfregiati dalla rabbia della dittatura, gli occhi diventano lucidi di pianto.
Bibliotecario al Corriere della Sera e giudice di pace. Ha pubblicato vari libri di poesie, l'ultimo si intitola "Pandosia".