Una mia cara e stimata amica, già negli organici della Magistratura e da tempo impegnata attivamente in politica, di ritorno da un viaggio in Austria mi scrive: “Sono rientrata ieri sera da Vienna e, devo dire, mi sento un po’ depressa. Ho lasciato una città ordinata, pulita, piena di verve culturale, verde ovunque e trasporti efficaci ed efficienti, e mi appresto a riprendere la lotta per la sopravvivenza urbana e civile nel nostro Bel Paese. […] “
La mia risposta.
Nel ciclo de “Le Maldobrìe”, esilarante “Spoon River” di matrice giuliana (gli autori sono Carpinteri e Faraguna) vi è un libro titolato “L’Austria era un paese ordinato”, ironica ancorché bonaria rassegna degli aspetti prasseologici della macchina burocratico-amministrativa gestita dall’Imperial-Regio Governo dell’amatissimo Cecco Beppe durante l’appartenenza di Trieste all’Austria (Felix): un modo godibile, perché non astioso, di mettere alla berlina i connotati più maniacali e pedanti dell’apparato statale presente in tutti i gangli vitali della società e della vita pubblica nel comprensorio triestino e oltre.
Il libro fa ridere ma è terribilmente serio. Ha scritto Vittorio G. Rossi in una sua recensione ad esso che chi ride lo fa per non farsi veder piangere. Perché questa zingarata letteraria, questo scanzonato sberleffo sottende in realtà una profonda nostalgia, un inconfessato rimpianto per “i bei tempi andati”, per un’epoca in cui tutto funzionava a dovere, tutto era lindo, pulito e “ordinato” per l’appunto; un’epoca in cui il rispetto di tutti verso tutti era una categoria comportamentale generalizzata; un’epoca in cui persino i funzionari statali erano incorruttibili e in cui le istituzioni venivano guardate come severi ma giusti tutori. Restavano (e come potrebbe essere altrimenti?) le ciacole fitte fitte e diffuse come una insopprimibile peculiarità del viver quotidiano, espresse in uno strano ma comprensibilissimo e brioso vernacolo istro-dalmato con alcune sfumature tratte dallo slang germanico.
Ecco, ho scomodato gli autori di questa intelligente antologia popolare (ma non popolana) per significarti che non vi è nulla di più facile del tornare da un viaggio a Vienna e sentirsi depressi come non mai nell’atto stesso di riprendere a respirare l’aria nostrana. Riconosco che il paragone con il Bel Paese è persino improponibile considerata l’ampiezza del divario che ci divide (inversamente proporzionale alla vastità e alla collocazione geografiche dei rispettivi territori), ma aggiungo altresì che il vuoto apparentemente da colmare non deve trarci in inganno né indurci alla rinuncia “a prescindere” d’un tentativo di riscatto e di mutamento della nostra realtà in costante dissoluzione.
Se ti può essere d’aiuto, io, per esempio, un po’ per deformazione “professionale” di modesto ricercatore storico, un po’ per trovare qualche appiglio che mi convinca che anche nella fattispecie “tutto il mondo è paese”, quando volgo un pensiero alla quasi perfezione attuale dell’ Austrian way of life, non manco mai di considerare anche il loro modo sussiegoso di proporsi e il loro cedimento atavico a sentimenti xenofobi e un po’ reazionari; non manco di ricordare che Mauthausen è esistita perché gli austriaci dell’Anschluss lì l’hanno voluta e che i peggiori aguzzini dei lager di sterminio erano di origine austriaca; non manco di ricordare che loro hanno eletto alla massima carica dello Stato un ex Ufficiale delle SS mentre noi avevamo un Presidente ex partigiano: modesta ma significativa riprova che noi, almeno, i conti col passato avevamo provato a farli. Avevamo.
Onestamente, m’avvedo trattarsi d’un patetico pretesto. Ad onor del vero non è con la dialettica storicistica che si cambiano le cose, anche se la cultura, quand’è vivace ed estesa sia qualitativamente che quantitativamente, diviene generatrice di promozione civica e di progresso sociale e quella italiana, oggi, s’è rastremata come per un prodotto di nicchia.
Allora, che fare? Proibire agli Italiani d’andare a Vienna per evitare fastidiosi e imbarazzanti e frustranti paragoni, oppure incoraggiarli a intraprendere invece quel viaggio proprio per trarne motivo e ragione d’ammaestramento e di rinnovato impegno partecipativo?
In confidenza, ma tu ce li vedi gli Italiani medi (o la media degli Italiani, che poi è lo stesso) rendersi disinteressatamente disponibili per una rifondazione della struttura politico-sociale del loro paese fondata precipuamente sul rispetto e l’applicazione della maggior etica comportamentale possibile?
Vittorio Civitella, genovese di nascita ma chiavarese da moltissimi anni, si è laureato in Scienze Politiche e Sociali all’Università di Genova con una Tesi su "Il Partito d’Azione e il Liberalsocialismo", seguitando poi a intraprendere assidui studi di ricerca nel campo dell’analisi storica e della saggistica cui era dedito da tempo. Attualmente è collaboratore dell’ILSREC (Istituto Ligure di Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea) sul cui semestrale “Storia e Memoria” pubblica parte dei suoi lavori ("Un sacrificio silenzioso, Il caso Profumo"). Collabora con i Dipartimenti universitari di Studi politico-sociali e di Studi europei. È autore di un lungo saggio storico sul Movimento Azionista nel Levante Ligure e sulle formazioni "Giustizia e Libertà" in Valfontanabuona ("La collina delle lucertole", Gammarò Editori). È membro della Commissione Cultura di «Maestrale» e ha rivestito la carica di Presidente Vicario dell’ANPI di Chiavari.