Considerando che evocare un totem non è di per sé un fatto negativo, ma anzi può aiutare a superare momenti di crisi profonda, c’è poco da stupirsi se nel demolirlo chi lo venera reagisca in malo modo. Evidente il riferimento all’articolo 18 e alle dichiarazioni del Ministro Fornero. La posta in gioco nel processo di riforma del mercato del lavoro non è però la laicizzazione del movimento dei lavoratori dalle ideologie maturate in epoca fordista. Impattando tali disquisizioni teoriche con le esistenze concrete, si tratta infatti di capire se il lavoratore, come identità e come status, è ancora membro di un popolo o al contrario il residuato di una comunità ritiratasi nella propria riserva indiana. Visto il tipo di iscritti ai sindacati, in grande maggioranza pensionati, il dubbio è lecito.
Quanti degli attuali occupati sarebbero disposti a rompere ogni trattativa con il decisore pubblico in difesa del totem “articolo 18”? Le opinioni si sprecano. Sta di fatto che in un paese dove il 95% delle imprese ha meno di 10 addetti e circa due terzi ha dimensione individuale, circa la metà degli occupati lavora comunque in aziende soggette al vincolo della giusta causa in materia di licenziamenti. Si tratta, grossomodo, di 8 milioni di persone che, con il loro stipendio, assicurano peraltro il sostentamento a buona parte della popolazione inattiva, in forma di carico familiare e contribuzione previdenziale. Segare il totem, insomma, potrebbe sollevare una pesante frattura sociale, in termini di platea degli interessati e di toni della protesta. Ma qui necessitano ulteriori considerazioni.
La prima è che il totem, piuttosto che abbattuto, potrebbe essere rimodellato, passando dalla scure allo scalpello dello scultore. D’altronde, a legislazione vigente, la contrattazione aziendale può già derogare a tutte le norme nazionali in materia di lavoro, ivi comprese quelle sui licenziamenti: è il contenuto dell’articolo 8 della manovra di agosto, che, eccetto la CGIL (pungolata all’interno dalla FIOM), i sindacati digerirono senza batter ciglio. Non solo, le tre sigle più rappresentative avevano già siglato un patto con Confindustria, avallato dall’ex ministro Sacconi, che prevedeva la violazione della giusta causa da parte di aziende in crisi che proponessero un adeguato piano di investimenti. Un patto nato per tenere dentro al sistema delle relazioni Marchionne, obiettivo poi mancato.
La seconda considerazione riguarda il presente dei lavoratori che godono della tutela – per favore non la si chiami privilegio, perché sa davvero di presa in giro – dell’articolo 18. Si tratta per lo più di occupati di lungo corso nella stessa unità produttiva, appartenenti in gran parte ai settori dell’industria e dei servizi: proprio i due dove si concentra il ricorso alla cassa integrazione, che, secondo le previsioni, entro la fine dell’anno potrebbe sfondare quota 100 milioni di ore. Detto in termini brutali, la giusta causa è in questi casi sì giuridicamente garantita, ma di fatto sospesa al vincolo bilancio dell’INPS. Ne sia un esempio il modello Termini Imerese, dove circa 700 “dipendenti” riceveranno gli incentivi di mobilità fino all’età del pensionamento. Verrebbe da chiedersi cosa cambierebbe se queste persone, piuttosto che ricadere nella tutela previdenziale in quanto ancora lavoratori garantiti, ricadessero sotto quella sociale in quanto individui titolari di un diritto universale al reddito minimo di inserimento.
La terza considerazione riguarda l’universo dei nuovi assunti, che sono in maggioranza giovani, ma non solo. Chi accede oggi ad un nuovo rapporto di lavoro ricade nella miriade di contratti flessibili, che offrono al datore di lavoro il massimo della convenienza e, lo si dica senza eufemismi, ricattabilità. Salvo eccezioni legate forse più al contesto geografico che al settore di attività, le nuove assunzioni subiscono tentacoli che si chiamano contratto a progetto, lavoro interinale, partita IVA, contratto intermittente o a chiamata e così via. Una gamma variegatissima che ha un comune denominatore la piovra della precarietà. Un precariato che mette poi a repentaglio la tenuta del sistema previdenziale e fiscale, poiché l’esiguità delle trattenute rispetto allo stipendio netto mette in crisi il bilanciamento tra entrate e spese dello Stato. Tutto ciò si traduce in tagli alle prestazioni anche essenziali, tra cui proprio la cassa integrazione, ma anche in compensazioni alternative come l’introduzione di nuove imposte o l’aumento dei ticket sanitari. E’ evidente che la partita delle nuove assunzioni non può continuare a giocarsi prolungando all’infinito i tempi di recupero, bisogna che un arbitro mandi le controparti negli spogliatoi e si inizi il secondo tempo con più energie e nuovi schemi di gioco.
Si potrebbe andare oltre, poiché tanti sono i temi da trattare, ma è chiaro che prima di accalcarsi attorno al totem dell’articolo 18 si dovrà riflettere con cura sulle suddette tre questioni: un’analisi esaustiva della normativa in materia di lavoro, a partire dalle recenti misure negoziali e legislative in materia di licenziamenti; la pesatura effettiva degli attuali lavoratori garantiti, al netto dei sospesi in virtù della cassa integrazione e alla luce delle prospettive di sviluppo della media e grande impresa italiana; una valutazione sulle nuove posizioni occupazionali, siano esse all’inizio o nel bel mezzo della carriera lavorativa, in termini di precarietà delle condizioni contrattuali e di ammanco di risorse per l’erario.
Bisognerebbe davvero mettere allo studio una nuova formula giuridica ed economica accettata innanzitutto da chi assume, poiché chi cerca lavoro, è triste dirlo, oggi ha poco da scegliere. Forse la strada da percorrere è quella del contratto unico, con garanzie e livelli retributivi crescenti, ma non si dica di ancorarli alla produttività, un concetto ancora ignoto nella cultura imprenditoriale italiana (figurarsi poi misurarlo). Una cosa è certa, senza un forte senso di responsabilità sociale da parte delle organizzazioni che si troveranno a gestire il prezioso patrimonio dello scontento, ma allo stesso tempo anche di realismo e lungimiranza da parte delle forze produttive, il rischio è di depauperare ulteriormente il capitale civico ed economico del paese.
Marco Lombardi, nato nel 1977, laurea in Scienze Politiche conseguita alla Cesare Alfieri di Firenze, vive da sempre nella cintura del capoluogo toscano, dove attualmente si occupa di politiche sanitarie. Ha lavorato nel settore delle politiche sociali, seguendo progettazioni in materia di politiche giovanili, adolescenza, sport, immigrazione e cooperazione internazionale.