Nella cartina dell’Africa il Burkina Faso è una pennellata tra i più noti Paesi del nord-ovest lambiti dall’oceano, come Costa D’Avorio e Ghana, e i grandi territori subsahariani. Con tante nazioni del continente nero condivide povertà diffusa e una democrazia malata, ma non le esplosioni di violenza che catturano l’attenzione dei media occidentali. Un po’ defilato e lontano da forti contrasti sociali, il Burkina Faso è riuscito a imporsi nel panorama culturale internazionale con due dei più importanti festival africani: dell’artigianato etnico e del cinema. Quello è il paese a cui il giovane Cleophas Adrien Dioma voleva regalare una democrazia senza compromessi. Era studente all’università di Ouagadougou, cuore del fermento politico contrario al capo del governo. Per gli oppositori la vita non è facile, Cleophas viene allontanato dagli studi. La disillusione lascia presto il passo alla speranza di una nuova vita. A 26 anni Cleophas decide di emigrare in Europa. È il 1998.
La tua prima destinazione è stata la Francia, poi hai deciso di venire in Italia perché speravi in una sanatoria. Che differenze hai notato, da migrante, tra i due Paesi?
L’impatto è stato strano. In Francia mi sentivo ancora Cleophas, un po’ perché il francese è la mia lingua e un po’ perché lì gli africani sono tantissimi. Non mi rendevo conto della mia differenza. A Milano ho scoperto di essere nero e di essere straniero. Le prime parole che ho imparato in italiano sono “cerco lavoro”. Le ripetevo persino porta a porta. Poi sono andato a Napoli, perché i controlli sui clandestini a sud non erano così severi. Dopo sei mesi ho fatto la richiesta per la sanatoria e dopo un anno e mezzo è arrivato il permesso di soggiorno.
Come sono stati questi due anni da clandestino nel Meridione?
Ho lavorato, sempre in nero, nella raccolta di pomodori a Foggia e anche nella raccolta di arance a Rosarno, dove c’è stata quella rivolta. Rispetto a dieci, undici anni fa lì la situazione non è affatto cambiata. Mi ricordo che anche allora sparavano agli operai. Lo fanno ogni anno, alla fine della raccolta, per spaventarli e farli scappare, così non li pagano. Hanno sparato anche contro di me. Il giorno dopo infatti me ne sono andato.
Dove dormivate a Rosarno?
Stavamo in una vecchia fabbrica abbandonata, un posto terribile. Di notte dormivamo uno accanto all’altro con un fuoco acceso in mezzo, perché faceva un freddo tremendo. È stata un’esperienza dura che mi ha fatto riflettere sulla mia scelta di venire in Italia. In Burkina Faso infatti la mia situazione non era così drammatica e ovviamente in Europa pensavo di trovare qualcosa di meglio, invece sono finito molto in basso. Ho pensato di ritornare, poi mi sono confrontato con gli altri e ha prevalso la speranza. Ho fatto la richiesta per la regolarizzazione.
Che cosa è cambiato quando hai avuto in mano il permesso di soggiorno?
È come passare dal non essere all’essere. Quando sei clandestino non puoi mai avere ragione. Basta un piccolo incidente e la prima cosa che i vigili chiedono sono i documenti. Se non ce li hai sei in torto. Poi non puoi affittare una casa, aprire un conto, mandare i soldi a casa… È anche un discorso di libertà e di futuro: col permesso di soggiorno puoi pensare di spostarti, di prendere un treno per andare in una città del nord e iniziare un nuovo lavoro. Ma c’è un’altra faccia della medaglia, che è diventare schiavi di un pezzo di carta: ogni volta che scade il permesso bisogna fare il rinnovo e bisogna sempre giustificare la propria presenza, anche se magari si è in un momento difficile perché si è perso il lavoro. Si diventa prigionieri di un documento.
Perché hai scelto di venire a Parma per cercare un lavoro al Nord?
Il motivo è un po’ stupido, quando lo racconto la gente ride. Al tempo c’era Liliam Thuram al Parma e avevo visto una sua intervista in cui parlava di razzismo. Io ovviamente non conoscevo la città ma dovevo scegliere un posto, e ho scelto Parma. Le prime due settimane non avevo una casa, dormivo in stazione. Però dieci anni fa c’era molto lavoro, ho travato subito un posto da metalmeccanico in provincia. Poi alcuni ragazzi ivoriani mi hanno aiutato a trovare un alloggio e ho iniziato una vita più stabile. Dopo un anno però ho fatto la valigia e sono tornato nel Burkina Faso: mi sembrava di aver buttato via due anni, che le cose in Italia fossero andate male, che il mio progetto non si fosse realizzato. Il viaggio a casa mi ha aiutato a riflettere. Ero diventato un po’ italiano e non volevo buttare via tutta quest’esperienza. Sono tornato per ricominciare da una prospettiva diversa.
Adesso il tuo lavoro è la scrittura. Come sei arrivato a questo traguardo?
A Napoli ho iniziato a frequentare un corso di italiano. Mia madre mi diceva sempre: “Se vai in un posto dove camminano sulle mani devi imparare a camminare sulle mani”. Ho imparato la lingua e ho cominciato a sentire l’esigenza di comunicare quello che avevo dentro. Ma parlare era difficile, il foglio e la penna erano miei amici perché mi permettevano di sfogarmi. Scrivevo poesie e monologhi con me stesso. Poi ho conosciuto un’amica che si è messa a leggere quello che scrivevo, prima in francese e poi in italiano, e mi ha aiutato in questo percorso. Parallelamente c’era anche un percorso politico: frequentavo i centri sociali di Napoli, cercavo di impegnarmi per il riconoscimento dei diritti degli immigrati. È così che ho iniziato a scrivere dandomi un punto di vista.
I tuoi primi testi sono sull’Africa.
Sì. Quando qui si apre la finestra Africa si vede o il disastro o l’esotico. Non si tiene conto delle persone che vivono una vita normale, quotidiana. E poi ho iniziato a scrivere dalla prospettiva dell’immigrato, del clandestino. Di quale è stata la mia esperienza, delle mie prospettive, dell’Italia vista con gli occhi dello straniero. Adesso mi concentro di più sulla politica: dopo dodici anni mi sento un po’ italiano e voglio pensare che la politica italiana mi riguarda. Non voglio stare zitto, voglio dire quello che penso.
Come hai messo piede nel giornalismo?
Ho conosciuto quasi per caso L’Internazionale, mi ha molto colpito che pubblicassero anche articoli scritti da giornalisti burkinabè. Ho iniziato a mandare alla redazione i miei testi. Per un anno non ho sentito niente, poi mi hanno contattato per una rubrica tenuta da migranti e mi hanno chiesto di mandare altri testi. Mi hanno pubblicato ed è stato bellissimo. Adesso collaboro al settimanale on line “Domani”. Sto preparando un libro.
Di che cosa parlava il tuo primo articolo?
Il titolo era “Sono di Busseto”. Era quello che mi aveva detto un ragazzo di 16 anni, nero, che avevo incontrato sul treno. Lui diceva: io sono di Busseto, i miei genitori sono nigeriani. Significa che lui si sentiva di appartenere all’Italia e non all’Africa, è una cosa che mi ha fatto riflettere. Io cosa sono? Sono ancora del Burkina Faso, ma ho preso anche un po’ di parmigianità. Io mi sento di Parma, lo vedo anche quando mi sposto in altre città.
Adesso a Parma che cosa fai?
La scrittura è diventata un lavoro. Scrivo per L’Internazionale, per la rivista online Domani Arcoiris. Poi in questi giorni ho debuttato su “Il Fatto”. Sono anche educatore, lavoro sia con ragazzi italiani che stranieri. Da anni mi occupo dell’organizzazione del Festival della cultura africana a Parma.
La tua è una storia positiva di integrazione. Quali sono i problemi degli stranieri in Italia, anche rispetto a dieci anni fa?
Il primo problema è la non possibilità di aprire la bocca. Ancora oggi la nostra voce non conta, dobbiamo sempre giustificare la nostra presenza. Sembra banale ma è così. Poi c’è il discorso politico: le leggi vengono fatte per togliere piano piano tutti i diritti. Arriveremo ad avere solo il pezzo di carta e con quello potremo uscire di casa solo per lavorare, senza farci sentire. Si cavalcano i media per montare la paura dello straniero. Ma adesso non sono più solo gli italiani ad avere paura. Gli immigrati non sanno se domani avranno ancora il permesso di soggiorno, un lavoro, se dovranno tornare a casa. Non hanno più prospettive di sicurezza.
Che cosa ne pensi della politica italiana?
Sono un po’ in conflitto: la sinistra fa fatica a capire come impostare il rapporto con gli extracomunitari e la destra ha bisogno di clandestini casinisti e lavora molto per sviluppare questa immagine. Bisognerebbe fermarsi e ascoltare la voce delle persone cosiddette straniere. Capire che sono diventate italiane anche se non hanno la cittadinanza, che hanno figli e famiglia qui, il lavoro qui, tornano nel loro Paese in vacanza. Bisogna impostare la presenza anche politica della persona straniera nel territorio italiano. Abbiamo bisogno di sentirci rappresentati, ci sono troppe realtà che lavorano per noi e non con noi. Sono stanco di avere persone che mi assistono, che mi tengono la mano, quando credo di avere imparato tanto. Propongo cultura, scrivo, faccio politica. Siamo in tanti a fare queste cose, noi sappiamo che qualcosa è cambiato ma dall’altra parte fanno fatica a rendersene conto.
Il tuo futuro lo vedi a Parma?
Io mi sento parmigiano. Mi piace la tranquillità di questa città, mi piace socializzare con le persone, anche essere un po’ fighetto. Non è sempre facile. È brutto quando le signore controllano di aver chiuso la porta quando ti vedono arrivare, solo perché sei nero. Per un anno ho salutato la mia vicina di casa, che è anziana, senza che lei mi rispondesse. Ma io ho continuato e alla fine abbiamo cominciato a parlare di banalità. Adesso sappiamo un po’ tutto sulla storia dell’altro. Non bisogna farsi scoraggiare, è importante trasmettere un messaggio positivo a chi non ci conosce.
Intervista pubblicata su http://parma.repubblica.it/
Maria Chiara Perri, giornalista, lavora alla redazione di Parma di Repubblica