Vogliamo parlare di Erika che è tornata libera? Preferiremmo di no, ma la notizia sa di provocazione. E dunque parliamone. Dopo Omar, Erika. A un anno di distanza dalla scarcerazione del complice, anche l’istigatrice torna a casa o dovunque si trovi ora, dato che nella villetta del massacro di Novi Ligure non l’hanno vista e pare non abbiano voglia di vederla. I concittadini. I quali, ci fanno sapere i giornali, hanno accolto la notizia con un misto di ostilità e gelida indifferenza. E come avrebbero dovuto reagire. Accoglierla a braccia aperte a beneficio della tv delle lacrime? Perdonarla a beneficio di qualche prete che comprende tutto, ma non capisce nulla? Trovarle un lavoro a beneficio di qualche organizzazione che campa sul reinserimento di reprobi, afflitti e abbandonati?
Ostilità. Gelida accoglienza. Una volta tanto la società manifesta la sua notoria crudeltà nella direzione giusta. L’opinione pubblica, perlomeno quella locale, non si è fatta infinocchiare dalle solite chiacchiere sul pentimento. Da come i due ex «fidanzatini» parlano e si comportano, da come Omar si è fatto vedere e ascoltare in tv, da come si è fatto e fotografare mentre portava i fiori sulle tombe delle sue vittime, si può tranquillamente concludere che il pentimento è tutta una montatura. Con buona pace di Paolo Crepet, di don Antonio Mazzi e del nipote che gli manda avanti l’impreso di recupero.
Senza resuscitare Cesare Lombroso o qualche criminologo ottocentesco, ci piacerebbe che un medico qualificato suffragasse certi nostri sospetti, ossia che in certi cervelli non albergano le fonti, i regolatori, i chips non saprei come chiamarli, del senso di colpa. Così come non esistono quelli che soffrono di vertigini, quelli che hanno paura o quelli che non riescono a distinguere il rosso dal verde, forse esistono quelli che non sono in grado di cogliere le sfumature tra il bene e il male. Magari sono tanti a essere sprovvisti di questo dono. I più, però, osservano come fanno gli altri e, se non sono spinti da motivazioni impellenti, si adeguano e, sempre imitando gli altri, concordano con la maggioranza: questo è bello, questo fa male, questo proprio non si deve fare.
Dopo una serie di delitti, da Garlasco a Perugia, da Avetrana a Cogne, tanto efferati quanto senza paternità, con i sospettati o i condannati che fanno sfoggio di ammirevole sangue freddo e di una mutria da far rizzare i capelli in testa a Dario Argento, dovremmo arrenderci all’evidenza. I mostri esistono e sono tra noi. E allora abituiamoci ad accoglierli gelidamente e ostilmente. Di modo che la loro pena carceraria possa per loro diventare il rimpianto per il paradiso perduto e la società dove i figli non dovrebbero ammazzare i genitori, e viceversa, si trasformi nella loro vera galera. Il luogo dove scontare la condanna a vita. Che è poi la nostra stessa condanna. Con la differenza che molti di noi sono sopraffatti dal senso del peccato originale, pur non avendo mai torto un’ala a una zanzara tigre.
Francesco Frambati è un giornalista free lance e vive a Milano.