La tristezza italiana. Che il nostro Paese non attraversi un bel momento è fuori da ogni dubbio; ma se a ricordarcelo sono i “coinquilini” del mondo occidentale, mandar giù il boccone diventa ancora più difficile. Le altre nazioni ci ridono dietro per la politica, ci eliminano dalle coppe, ci danno scadenze economiche. E adesso ci dicono anche che non abbiamo futuro. Come se non lo sapessimo.
World university rankings è la classifica mondiale degli atenei stilata dalla londinese Quacquarelli Symonds, società di ricerca specializzata in temi educativi. È un elenco criticabile, per l’uso di criteri quali “reputazione” o per il tener conto elusivamente delle pubblicazioni in lingua inglese, ma è comunque una classifica impietosa, che guarda all’Italia in maniera rassegnata più che delusa, che ancora una volta la illumina di cattivissima luce.
Tra le 200 migliori università al mondo, solo Bologna, infatti, porta in alto il tricolore; ma “in alto” è un eufemismo, dato il suo 183° posto e le 7 posizioni perdute rispetto un anno fa. Poi, in una discesa inesorabile, troviamo La Sapienza di Roma (210°) e le università di Padova (263°) e di Milano (275°) surclassate da atenei inglesi ed americani. In nessun caso tocchiamo l’eccellenza, nemmeno col 48° posto del Politecnico di Milano tra gli atenei tecnologici. Più su proprio non si riesce ad andare.
Quasi 3000 università censite, e questo è il meglio che il Paese di Dante, Michelangelo e Galileo – ma oggi anche di tante pupe e pochi secchioni – è riuscito a produrre. Così la fuga dei cervelli non è un problema ma una speranza, perché chi un cervello ce l’ha prova a scappare per non morire di precariato. La Gelmini, salda al timone di una nave che cola a picco, non si allarma: «I dati positivi per due università, Bologna e Milano ci motivano ancora di più nell’attuazione rapida della riforma universitaria». Perché ogni occasione è buona per tirare acqua al proprio mulino. I fondi mancano e mancheranno, ma il problema non è solo economico, perché il denaro poco può incidere su una mentalità in cancrena. Meritocrazia: questa sconosciuta.
Un tempo essere dottore, essere laureato, era una carica di prestigio, riconosciuta per meriti e sacrifici. Oggi si laureano tutti, tutti. Se sei ricco la laurea non sarà mai un problema, ma solo una questione di tempo. E non mi riferisco a storie di corruzione o di raccomandazioni, parlo del semplice fatto che tra università private e pubbliche, corsi a pagamento, tutor e lezioni private, a forza di tentativi, di materie imparate a memoria e di compiti scopiazzati, di cambi di ateneo, prima o poi alla laurea ci si arriva. Trentenne alla triennale, e poi a sistemarlo ci pensa papà.
Se sei povero la situazione è più complicata, come per tutti gli altri aspetti della vita. Eppure la via dei tentativi funziona anche qui: fuoricorso e ripetente cercando di non strafare, o si corre il rischio di non raggiungere quella miseria di cfu necessari per ottenere la borsa di studio per reddito. Un contributo allo studio sacrosanto, certo; di manica larga, ma sacrosanto. Occorre essere fannulloni oltre ogni limite per non laurearsi. Occorrerebbero più genitori che capendo la pigrizia del figlio lo indirizzassero ad essere lavoratore piuttosto che mantenuto.
Perché, dal punto di vista lavorativo, quando sono tutti laureati è come se non lo fosse nessuno. Il voto di laurea conta poco, le lodi ancor meno; soltanto i nomi delle università fanno da spartiacque: gli atenei statali non hanno prestigio, quelli privati e rinomati danno visibilità e quindi più possibilità di accesso all’inesplorato mondo del lavoro post-laurea.
In Italia non si boccia, né all’università, né ancor prima ai licei – con il degrado e l’ignoranza che nascono nella scuola pubblica e, prendendo la rincorsa, si abbattono poi contro gli atenei – o si boccia in attesa del prossimo, vincente tentativo. Come se lo studente che ammette la propria incapacità e sceglie di andare dignitosamente a tentare di trovarsi un lavoro fosse motivo di vergogna. Nessuna cultura del sacrificio, nessun timore di non farcela, perché tanto ce la fanno tutti; e i professori ne sono l’esempio.
Accanto ad insegnanti memorabili, a grandi uomini, di cultura e di scienza ancor prima che professori, sopravvivono e proliferano mediocri millantatori, pseudo intellettuali. È la potente casta dei “poltronisti”, di professori di comunicazione che non sanno cosa sia il garante delle comunicazioni, di filosofi di provincia che confondono con disinvoltura i classici greci, di insegnanti di lingua che balbettano sotto le richieste di un turista, di professori per cui la letteratura esiste solo tra Trento e la Sicilia, nessun Kafka, Sartre, Hemingway, Neruda, Pessoa. A nulla contano i questionari di valutazione dell’insegnamento, o il fatto che a causa di doppi e tripli incarichi questi professori non siano mai disponibili, tanto al posto loro ci sono assistenti/servi quarantenni.
Per insegnanti così le nostre università rappresentano l’habitat ideale, capitati non si sa come con i gomiti appoggiati su cattedre che non meritano; strategicamente piazzati da presidi, presidenti e rettori che all’università hanno messo le radici come rampicanti, ma sarebbe meglio dire “arrampicatori”. Gli smaliziati studenti di oggi, quelli capaci di copiare dal videofonino o di conoscere in anticipo i temi della maturità, a fiuto distinguono gli insegnanti competenti dai loro colleghi conoscitori soltanto dei testi che hanno pubblicato – perché il programma verte unicamente sulle loro pubblicazioni, con evidenti riscontri economici ed editoriali per le loro tasche – e sanno bene per quale esame occorre studiare e per quale invece basterà una lettura e qualche appunto. E avanti così, tra scorciatoie e trucchetti, la gran parte degli studenti come la gran parte dei loro insegnanti.
(È lo sfogo di uno studente, la testimonianza indignata del malumore crescente. Tutto ciò già si sa, ma che non si riesce a cambiare)
Fabio Manenti, siciliano di Ragusa. Dottore in Lettere e studente di giornalismo e cultura editoriale presso l'Università di Parma.