L’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne, uno che con quella bocca può dire ormai ciò che vuole, ha detto fuori dai denti che proteste e scioperi non servono a nulla. Certo che questo uomo venuto dal freddo Canada non ce ne risparmia una. Un giorno dice che vuole trasferire la sua (sua?) azienda chissà dove se gli operai non se ne stanno buonini. Un altro annuncia che la Fiat uscirà dalla Confindustria per smarcarsi da qualsiasi patto con i lavoratori. E oggi ci informa che «protestare, scioperare non serve a niente».
E se Marchionne avesse ragione? A questo livello delle cose è probabilmente vero che con cortei e grancasse fatte con i bidoni in stile autunno caldo non si va da nessuna parte, non si cava un regno da un buco. I pochi occupati ci perdono solo giornate di lavoro, che vogliono dire soldi e prima o poi devono piegare la testa e rientrare. Quello che vuol intendere Marchionne quando parla di inutilità della protesta (lasciate perdere e accettate le mie condizioni, o mangiate questa minestra o saltate da quella finestra) può essere letto però anche in tutt’altra maniera. Può essere un invito (assolutamente non voluto) a ripensare le forme di lotta.
Con questi padroni che non sono più padroni dei soli mezzi di produzione, cioè delle fabbriche, dei macchinari e dei capitali, ma padroni assoluti delle nostre vite, forse bisognerà, come si diceva una volta, alzare il livello dello scontro. Sfasciare le vetrine e dare fuoco alle macchine non aiuta la causa dei disoccupati e degli indignati. Sono forme esasperate di un teatro di strada che mette in scena la disperazione sociale. Episodi transitori di un’opposizione ancora allo stato nascente. Una sorta di malattia infantile.
Bisognerà crescere in fretta per guarirne senza lasciarci le penne. E inventarsi qualcosa di nuovo. Adatto alle circostanze. In Grecia la guerriglia può continuare anche su questi binari: non hanno nulla da perdere e con la disoccupazione giovanile al 42 per cento come fai a spiegargli che le strade sono altre. La rivolta, al contrario di una rivoluzione con programmi e leader, è di per sé ingestibile. E poi per questi ragazzi senza un futuro qualche mese o anno al fresco può apparire anche una forma estrema di sopravvivenza. Che cosa volete che gli importi di sporcarsi quel pezzo di carta che è la fedina penale quando è la loro stessa vita a essere compromessa in maniera irrimediabile?
Questo non è cinismo, non è istigazione a bruciarsi la vita. Il cinismo è di chi ha costretto una generazione a immolarsi nel fuoco della battaglia e dei roghi suicidi. Da noi le cose sono un po’ diverse. Da noi bisognerà studiare qualcosa di più adeguato ed efficace. Qualcosa che tolga il sonno a chi ci ha portato al disastro. Che non sono necessariamente i politici. Da tempo sappiamo che costoro stanno solo eseguendo degli ordini. È Maroni che arma Manganelli, ma entrambi sono solo cani da guardia di interessi che non hanno le vetrine sulla via dove e quando scoppiano i disordini.
Sì, il riprovevole parapiglia romano non è stato altro che un falò, un’arma di distrazione di massa caricata dalle chiacchiere dei ciechi, dei benpensanti e degli untorelli che non mancano mai di sbraitare dai balconi televisivi. I benpensanti che incrociavano i cortei studenteschi nella Milano ancora brumosa se ne uscivano con frasi meneghine del tipo «mo’ andì a laurà». Battuta oggi improponibile. «Volentieri, ma dove?», sarebbe la facile e amara replica.
Ivano Sartori, giornalista, ha lavorato per anni alla Rusconi, Class Editori, Mondadori. Ha collaborato all’Unità, l’Europeo, Repubblica, il Secolo XIX. Ultimo incarico: redattore capo a Panorama Travel.