Il porto di Gioia Tauro, situato a nord di Reggio Calabria, è oggi uno dei principali scali commerciali marittimi del Mediterraneo, ma nel 1960, quando fu progettato, si pensava dovesse servire come supporto a quello che sarebbe dovuto essere il quinto centro siderurgico italiano di Reggio Calabria, progetto questo che non vide mai la luce.
L’inizio dei lavori avvenne negli anni ’70 e l’esecuzione dell’opera venne affidata alla multinazionale Contship Italia. Malgrado la preventiva sottoscrizione di un patto anti-corruzione tra il governo i dirigenti della Contship, questi si trovarono quasi immediatamente a scendere a compromessi con la ‘ndrangheta offrendo ai boss una tangente pari al 3% del valore dell’opera commissionata in cambio della promessa a poter proseguire tranquillamente i lavori. I boss di allora, Antonio Macrì, i fratelli Piromalli e i fratelli De Stefano, rifiutarono l’accordo e più ambiziosamente pretesero che gli venisse affidata la quasi totalità dei subappalti così da poter controllare e influenzare i progetti nella loro interezza. L’intento criminale prevedeva anche di ottenere il controllo delle attività che gravitano attorno al porto, dall’assunzione della manodopera ai rapporti con i rappresentanti dei sindacati e delle istituzioni locali. I malviventi riuscirono a imporre molte ditte a loro vicine come nel caso della Babele Publi-Service srl, azienda agli ordini di Giuseppe Piromalli, che riuscì, in maniera poco limpida, a subentrare alla ditta che fino ad allora effettuava il servizio di trasporto delle maestranze da e per il porto di Gioia Tauro.
Da successive investigazioni risultò come la Contship Italia non fosse completamente avversa ad avere contatti con la ‘ndrangheta per potersi assicurare quella che i vertici imprenditoriali ritenevano essere la necessaria tutela e garanzia per la realizzazione del progetto. D’altro canto la ‘ndrangheta voleva essere l’unico soggetto a poter venir coinvolto nell’esecuzione dei lavori, nell’erogazione di forniture di beni e servizi e nella gestione dell’assunzione di mano d’opera, diventando così la quasi esclusiva beneficiaria dei contributi e delle agevolazioni economico-finanziarie erogate a profusione dallo Stato e dalla Comunità Europea.
Secondo l’ipotesi formulata nel 1998 dai magistrati, Angelo Ravano, massimo dirigente di allora della Contship, nel momento in cui decise di assumersi l’onere dei lavori per il porto di Gioia Tauro stabilì un patto con Enrico Paolillo, legato alla ‘ndrina dei Piromalli, in cui accettava di versare una tangente alle cosche pari a un dollaro e mezzo per ogni container che veniva scaricato nel porto. Un porto in cui nel solo 1998 sono stati spostati più di due milioni di container e che oggi ne gestisce quasi tre milioni e mezzo. Per permettere alla Contiship di giustificare gli esborsi, il versamento del pizzo avveniva grazie al pagamento di fatture gonfiate emesse da imprese controllate dalle cosche mafiose. Secondo i giudici del tribunale di Palmi per gestire l’estorsione miliardaria in danno della Contship le cosche della Piana si erano federate in una sorta di “super cosca” che aveva il compito di coordinare le operazioni criminali.
Già dalle indagini del 1998 della Dda di Reggio Calabria emerge chiaramente il coinvolgimento negli affari illeciti dell’area portuale di Gioia Tauro di molte ‘ndrine tra le quali spiccano quelle dei Piromalli-Molè, dei Pesce e dei Bellocco, i clan più potenti della zona. Questi si erano posti come obiettivo il condizionamento ogni singola decisione della Pubblica Amministrazione relativa ai lavori del porto, proposito da realizzare anche sfruttando la complicità di alcuni pubblici ufficiali corrotti. Il Consorzio per lo Sviluppo dell’Area Industriale, l’organo competente in materia di approvazione di progetti, assegnazione di aree, finanziamento pubblico e di molte altre faccende inerenti al progetto portuale, più volte agi in una maniera giudicata poco trasparente. Anche la locale Agenzia delle Dogane, responsabile dei controlli doganali, è stata coinvolta anche recentemente in una severa indagine, realizzata dalla D.D.A. di Reggio Calabria in collaborazione con i R.O.S. dei Carabinieri, che ha svelato come alcuni dipendenti statali favorissero le cosche “chiudendo un occhio” durante le ispezioni sul materiale importato nel nostro Paese attraverso il porto e di fatto aiutando in maniera diretta i traffici illeciti di droga, di armi e di merci contraffatte il cui traffico ancora oggi costituisce la fonte di maggior guadagno per le cosche della piana di Gioia Tauro.
Il porto offre alle cosche una grande opportunità di delinquere in modo molto lucroso, sono innumerevoli le merci che qui transitano illegalmente ogni anno provenienti da tutto il mondo. Pochi mesi fa i Ros dei carabinieri in collaborazione con il nucleo antifrode doganale hanno dato vita all’operazione denominata “Maestro” in cui si è potuto procedere all’arresto di 27 presunti ‘ndranghetisti legati alle cosche Molè e Piromalli che operavano attraverso la ditta Cargoservice s.r.l. importando illegalmente, attraverso il porto, notevoli quantità di prodotti contraffatti provenienti dalla Cina. A finire in manette sono stati anche due funzionari delle dogane, l’ex direttore dell’ufficio dogana poi direttore tecnico della Cargoservice Adolfo Fracchetti e il funzionario Antonio Morabito. Nell’ambito della stessa operazione la Guardia di Finanza e i Carabinieri hanno sequestrato centinaia di chili di cocaina purissima sbarcata nel porto.
In merito all’operazione il procuratore di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone, ha affermato che “Gioia Tauro si conferma nelle mire della criminalità organizzata come una delle ‘porte’ principali di ingresso in Italia di merci contraffatte e stupefacenti”; analisi che se valutata insieme alla conclusione a cui è giunta la Commissione parlamentare antimafia nel febbraio 2008 in cui si evidenziava come “la ‘ndrangheta controlli e influenzi gran parte dell’attività economica intorno al porto e utilizza l’impianto come base per il traffico illegale” rimanda un quadro poco rassicurante relativamente alle attività economiche che oggi gravitano attorno all’area portuale. Sempre dalla commissione antimafia parte l’allarme per la presenza nell’area portuale di imprese “accertatamente mafiose già individuate nel corso dell’indagine “Porto” le quali, ricorrendo al semplice espediente del cambiamento di denominazione o ragione sociale, hanno tranquillamente continuato per anni, e continuano tuttora, ad operare”.
Nessun allarme sembra però poter fermare, o quantomeno spingere a monitorare più severamente, gli ingenti finanziamenti statali destinati a opere collegate all’area portuale di Gioia Tauro. Proprio in questi giorni il governo sta discutendo sugli interventi da attuare per lo sviluppo delle potenzialità del porto di Gioia Tauro, altri soldi in arrivo per sfamare la mafia.
Susanna A. Pejrano Ambivero (Milano, 06 Agosto 1971) ha una formazione medico scientifica, spesso impegnata in battaglie sociali e culturali soprattutto nell ambito del contrasto alla mentalità mafiosa. Vive nel profondo nord, a Cologno Monzese (MI), località tristemente nota per fatti di cronaca legati a 'ndrangheta e camorra.