Mario Vargas Llosa è il più importante scrittore peruviano vivente. Nato ad Arequipa, nel 1936, si mise ben presto in luce come scrittore con “La città e i cani”, del ’63, ambientato nel collegio militare di Lima. A questo suo primo romanzo seguirono, tra gli altri, “La casa verde”, “Conversazione nella ‘Catedral’ ”, Pantaleón e le visitatrici”, il fortunatissimo “La zia Julia e lo scribacchino”, “La guerra della fine del mondo”, “La festa del caprone”, “Il paradiso è altrove” e “Le avventure della ragazza cattiva”. E’ anche saggista – fondamentale il suo libro su Madame Bovary – e drammaturgo. Ha ricevuto tutti i più importanti premi letterari internazionali. Nel 1990 si candidò alla presidenza del Perù, ma venne sconfitto da Alberto Fujimori, condannato poi a 25 anni di reclusione per violazione dei diritti umani.
Abbiamo incontrato Vargas Llosa a Viareggio, in occasione del conferimento del Premio internazionale Viareggio-Versilia. Ora è in uscita, in Spagna, per la casa editrice Alfaguara, il suo nuovo romanzo, “El sueño del celta”, cui ha lavorato per oltre due anni, che verrà tradotto e pubblicato da Einaudi nel 2011. E gli abbiamo chiesto di parlarcene.
Il romanzo racconta della non comune vita dell’irlandese Roger Casement (1864-1916), diplomatico al servizio della Corona inglese, grande amico di Conrad, ma anche cospiratore della rivoluzione irlandese e, soprattutto, primo a denunciare gli orrori – o meglio, il genocidio – del colonialismo belga in Congo, di cui fu console all’inizio del XX secolo, all’epoca del boom del caucciù.
D.: Una sorta di saggio storico, dunque?
R.: No. Un romanzo a tutto tondo. E’ sì la storia di una vicenda avvenuta realmente nell’Ottocento, ma anche un pretesto per raccontare la vita di un personaggio che è stato, in qualche modo, pioniere dell’anticolonialismo e che è finito impiccato dagli inglesi nel 1916 con l’accusa di alto tradimento per aver tentato di approvvigionare di armi i nazionalisti irlandesi. Un uomo che è stato al tempo stesso eroe, traditore, pioniere e rivoluzionario e che è stato accusato – in seguito alla pubblicazione di suoi diari privati, probabilmente dei falsi redatti all’uopo dai servizi segreti inglesi – delle peggiori perversioni omosessuali.
D.: Ancora un personaggio dalle molteplici personalità. Una costante, direi, nei suoi romanzi. Basti pensare al brasiliano Antônio il Consigliere della “Guerra della fine del mondo”, o a Gauguin, del “Paradiso è altrove”, o al capitano peruviano Pantaleón Pantoja, o alla “ragazza cattiva” del suo ultimo romanzo.
R.: Ebbene sì. Ciò che mi interessa indagare è la pluralità dell’animo umano. Le sue contraddizioni. Non è sempre tutto palese e chiaro. Dentro di noi convivono molteplici personalità. Che si esprimono o meno a seconda delle situazioni.
D.: Aveva quindi visto giusto Stevenson con il suo “Dottor Jekill e Mister Hyde”.
R.: Certamente. Il mondo, la realtà, la vita, non sono mai o solo bianche o solo nere. Ma una eterna sequenza di grigi. E’ questa la caratteristica fondamentale dell’animo umano. E per fortuna, direi.
D.: Torniamo al “El sueño del celta”. La denuncia dei massacri, delle vessazioni, perpetrate in Congo dal re Leopoldo II del Belgio e raccontate a un Europa che pareva all’oscuro di tutto fanno venire in mente l’altro grande atto di accusa nei confronti del colonialismo descritto secoli prima da Bartolomé de Las Casas (1484-1566) nella sua “Brevissima relazione sulla distruzione delle Indie”.
R.: Indubbiamente. Sono documenti di verità raccontati a un mondo che questa verità pare non voler conoscere. Come anche, del resto, oggi. Il rispetto di culture diverse, seppur fragili e in qualche caso primitive. Il grido di dolore e di indignazione nei confronti di azioni che non hanno nulla di “civile”. Lo sfruttamento sistematico dell’uomo nei confronti di un altro uomo. Compito degli storici e, più modestamente, dei romanzieri che raccontano fatti della storia antica o recente, è quello di cercare di capire cosa c’è dietro alla storia “ufficiale”. Cosa ci viene nascosto dietro il paravento delle guerre “giuste” o delle rivoluzioni “trionfanti”.
D.: Ha affermato che l’attualità di una storia sta nella proiezione del passato sul mondo contemporaneo. Cosa si può dire, in questo senso, dell’Africa?
R.: L’Africa è un continente che – riprendendo il precedente riferimento al racconto di Stevenson – ha una doppia o plurima personalità. Ci sono realtà terribili, come quella congolese o angolana o, recentemente, della Somalia, e contemporaneamente realtà che lasciano intravedere un futuro tendenzialmente positivo, come il Sudafrica. Ad ogni modo ci sono delle precise responsabilità – civili, politiche -, da parte di noi occidentali, nei confronti della situazione attuale, responsabilità a cui i governi dovrebbero rispondere in modo più adeguato e responsabile.
D.: Roger Casement è stato anche un rivoluzionario, che appoggiava la causa dell’indipendentismo irlandese. Leggendo il suo romanzo pare che ci sia una sorta di simpatia nei confronti del Sinn Fein.
R.: Ebbene, Casement trovò nel movimento indipendentista irlandese un ideale di libertà, di autodeterminazione. Un desiderio di spezzare le manette ( “romper las esposas”) dal dominio inglese. Ed è per questo che venne processato come traditore della patria (durante la prima guerra mondiale cercò di accordarsi con la Germania per una fornitura di armi che non giunse però mai a destinazione) e impiccato nonostante le proteste di personaggi come Arthur Conand Doyle o Willian Butler Yeats o Gorge Bernard Shaw.
Come si diceva un volta, ribellarsi è giusto, se giusta è la causa. Anche se, in questa epoca di “cultura light”, è ben difficile essere ottimisti. Perché le radici della civiltà esportata dall’Europa bene educata hanno lasciato un’eredità di sangue. Violenza incontenibile, il terrore continua. Lo racconta Vargas Llosa ma un secolo fa lo aveva scritto anche Mark Twain: quegli ordini che partivano da Bruxelles. I kapò bianchi venivano premiati con piccoli diamanti per ogni mano destra amputata a minatori neri che provavano a rubare o battevano la fiacca. L’amministrazione distribuiva i premi una volta la settimana con la precisione di una burocrazia bene ordinata: contava le mani tagliati e liquidava i kapò. Bisogna dire che il libro di Mark Twain era stato commissionato da una impresa americana interessata allo scandalo internazionale: voleva prendere il posto belgi nello sfruttamento di oro e diamanti. Re Leopoldo aveva ricevuto l’incarico dai sovrani d’Europa riuniti a Berlino di «cristianizzare l’Africa nera nel nome di Roma». La concorrente Usa era di fede protestante, ecco il libro di Twain. Uscito vent’anni dopo perché le due holding si sono messe d’accordo e lo scandalo non interessava più.
Paolo Collo (Torino, 1950) ha lavorato per oltre trentacinque anni in Einaudi, di cui è tuttora consulente. Ha collaborato con “Tuttolibri” , “L’Indice” e “Repubblica”. Ogni settimana ha una rubrica di recensioni su "Il Fatto Quotidiano". Curatore scientifico di diverse manifestazioni culturali a Torino, Milano, Cuneo, Ivrea, Trieste, Catanzaro. Ha tradotto e curato testi di molti autori, tra cui Borges, Soriano, Rulfo, Amado, Saramago, Pessoa.