I clan siciliani hanno cambiato pelle. Come si è detto, per il persistere di talune contrarietà, hanno dovuto mantenere basso il profilo degli affari clandestini, malgrado siano andate a regime le rotte africane della droga. Ma tale profilo, nel merito del narcotraffico, è destinato a rimanere basso? Sono d’obbligo alcuni rilievi. La Sicilia dista appena qualche centinaio di miglia dalle sponde tunisine, libiche e algerine. Costituisce quindi la regione italiana più esposta a sud, con i suoi 1.484 chilometri di coste, isole minori comprese, e i suoi porti, puntati peraltro su tutte le prospettive del Mediterraneo. E con l’infittirsi delle rotte e dei traffici da Mezzogiorno, legali e illegali, è nelle cose che venga chiamata in causa, più di quanto lo sia stata nel secondo Novecento, quale porta d’accesso per il continente: a pari titolo della Spagna e delle coste balcaniche. Non c’è nulla di nuovo, beninteso. Si tratta di un ruolo che, in modo ondoso, la Sicilia ha ricoperto per destino storico, sul piano civile quanto su quello militare, e che in questi tempi viene bene esemplificato dalle vicende dell’immigrazione: è da oltre un ventennio che l’isola si trova investita frontalmente dalle tratte degli esseri umani, gestite per forza di cose da clan turchi, greci, maltesi, balcanici, maghrebini.
I nuovi scenari dell’economia, che esaltano le rotte del Mediterraneo, intese oggi quali vie maestre per fuoriuscire dalla crisi, finiscono con il ridurre in sostanza le distanze fra la Sicilia e il continente nero. E quest’ultimo costituisce da tempo la via maestra per rifornire di cocaina e oppiacei l’Europa, che detiene, in tandem con gli USA, il primato mondiale dei consumi di droghe. Tale riduzione di distanze può significare quindi molto negli orizzonti del narcotraffico. Non si tratta tuttavia solo di vicinanze materiali. La Sicilia si trova esposta pure sotto il profilo criminale, quale sede, appunto, di cosche dotate di una storia, di una identità coesa, in grado di interagire con le cose. È opportuno allora passare al vaglio quanto sta accadendo sul terreno, da tale prospettiva.
Di certo, le organizzazioni siciliane più importanti non stanno mostrandosi indifferenti ai mutamenti in corso. È quanto si evince da tentativi che, sulla linea degli affari clandestini, hanno avuto luogo negli ultimi anni. Dall’inchiesta newyorkese Old Bridge, che ha portato nel febbraio 2008 alla cattura di 90 persone, fra cui numerosi boss, è risultato che, dopo la cattura di Salvatore Lo Piccolo, la famiglia Inzerillo, rifugiatasi negli USA a seguito della guerra scatenata da Totò Riina, stava organizzando il ritorno a Palermo, con l’intento di ripristinare l’egemonia delle famiglie siciliane nel narcotraffico internazionale. La consistenza del progetto è attestata peraltro dalle persone che vi risultavano implicate, del calibro di Jackie D’Amico, Frank Calì, Filippo Casamento: capi di famiglie che da decenni operano all’unisono con il clan Gambino, considerato fra i più potenti d’America.
Dall’inchiesta Perseo, che il 16 dicembre 2008 ha portato all’arresto di 99 mafiosi di Palermo, è emerso altresì il disegno di ripristinare la cupola delle famiglie palermitane, nella prospettiva di un rilancio degli affari clandestini. Tale progetto era sostenuto dal latitante Matteo Messina Denaro, con il concorso di boss di vecchia generazione, come Gaetano Fidanzati, ancora latitante, che negli anni Settanta aveva assunto un ruolo di prim’ordine, con Gaetano Badalamenti, Tommaso Buscetta, Gerlando Alberti, Salvatore Greco. E non basta. Tentativi di recupero affiorano dall’inchiesta Unlucky Wolf, che ancora nel dicembre 2008 ha portato all’arresto di 25 mafiosi palermitani. È stato scoperto, in particolare, che partite di cocaina dall’Argentina affluivano nell’isola, in piena autonomia, attraverso gli aeroporti di Amsterdam, Londra Parigi, Vienna, Milano: cosa del tutto anomala, se si considera che negli ultimi due decenni, i siciliani, per rifornirsi di droghe a uso territoriale, hanno dovuto rivolgersi di norma ai campani e ai calabresi.
Traspare in definitiva un lavorio sottotraccia che vede riemergere boss della vecchia guardia, verosimilmente consapevoli del tunnel in cui indugiano gli eredi dei capi corleonesi, in particolare sulla linea del narcotraffico, che oggi risulta, appunto, fra le più dense di promesse. Ancora conferme vengono del resto dalle peripezie del vecchio Ugo Martello, che nell’aprile 2009 è apparso nell’inchiesta Milano-Palermo, per traffico di droga in concorso con Luigi Bonanno e Salvatore Cangelosi, cognato quest’ultimo di Gaetano Fidanzati. Ma quale lettura dare della presenza di tali boss, di stampo antico, negli affari di droga, proprio mentre vanno slargandosi gli orizzonti dei commerci euro-mediterranei? L’aggancio generazionale, una sorta di somma algebrica del vecchio stile e del nuovo, che consegna al passato pure i cruenti conflitti di mafia degli anni Ottanta, sembra muovere da ragioni contingenti, si direbbe di opportunità. Manifesta nondimeno caratteri di necessità, giacché vengono recuperate e messe a frutto eredità di vario genere che oggi possono rivelarsi importanti, se non fare addirittura la differenza.
Manifestatasi con la massima ampiezza negli anni Sessanta e Settanta, la mafia di Stefano Bontade e dei Greco di Ciaculli è riuscita a mantenere patti ferrei con la politica, con il benestare tacito dei supervisori atlantici. Esponenti di quella consorteria hanno fatto la storia del commercio clandestino dei tabacchi, prima di imporsi nel narcotraffico intercontinentale, per il quale hanno potuto beneficiare delle mappe del precedente business. La mafia che è venuta dopo, pur originata dal medesimo ceppo, è altra cosa. Ha ingaggiato uno scontro frontale con la politica senza cavarne benefici di sorta. Come si diceva, ha dovuto ridurre il perimetro degli affari clandestini. Numerosi boss, chiamati in causa da rei confessi, sono stati costretti infine a latitanze difficili, da cui sono usciti con la carcerazione, in regime di 41 bis. Il contatto generazionale può servire allora a rigenerare, a incettare saperi, ad attualizzare, laddove sia possibile, le vecchie mappe, in un orizzonte composito, nel quale le conoscenze e i contatti pregressi possono costituire la mossa di vantaggio per rimontare la china.
Fidanzati, Inzerillo, Martello, Cangelosi, sono finiti in carcere. Al pari di altri, ancora liberi o pure loro dietro le sbarre, hanno recitato tuttavia una parte non indifferente. Hanno rimesso in circolo, nel business clandestino che più consente di capitalizzare, un bagaglio di nozioni, una «cultura», uno stile imprenditoriale. Lo hanno fatto in prima persona, con l’apporto di figli, parenti, amici, chiamando comunque a raccolta passato e presente. Per quanto catalogati come falliti, i tentativi degli ultimi anni zero, quelli cioè della grande crisi, possono essere quindi preparatori di svolte organizzative, di passi in avanti. In ogni caso sono sintomatici di una raggiunta consapevolezza della posta in gioco. E i picchi di disoccupazione nell’isola, indotti dalla recessione, possono apportare benefici non da poco alle cosche che intendono riorganizzarsi.
Carlo Ruta si occupa di ricerca storiografica e di informazione. Dalla metà degli anni ottanta fino alla metà degli anni novanta è stato direttore di una rivista bibliografica e scriveva sul settimanale “Avvenimenti”. Attualmente scrive su "Il Manifesto", "Narcomafie", "Left Avvenimenti- L’Isola possibile", "Libera Informazione". Ha curato il sito web accadeinsicilia.net e il blog leinchieste.com. Con la casa editrice Rubbettino ha pubblicato "Gulag Sicilia" (1993), "Appunti di fine regime" (1994) e "Il binomio Giuliano-Scelba. Un mistero della Repubblica?" (1995). Con la casa editrice La Zisa ha pubblicato "Cono d’ombra" (1997) e "Politica e mafia negli Iblei" (1999). Con Mimesis ha pubblicato "Guerre solo ingiuste. La legittimazione delle guerre e l’America dal Vietnam all’Afghanistan" (2010). È socio onorario di Libera e di altre realtà associative.