HAITI 1 / Spostiamo Haiti nel nostro mondo
19-01-2010
di
Maurizio Chierici
Agli haitiani è rimasta una speranza: non sparire dalle prime pagine dei giornali. Quei corpi ammucchiati come legna o sciolti nelle strade devono perseguitarci fino a quando prende forma una solidarietà non solo concreta: matura. Non provvisoria: dialogante. Lontana dai ricatti provvidenziali dei piani Marshall, quegli aiuti in cambio di insediamenti militari o domini commerciali che hanno permesso all’Europa di rifare le spalle forti, ma la galassia delle basi armate 60 anni dopo condiziona le nostre abitudini. Proteste inutili, [singlepic id=144 w=220 h=140 float=left]trattati di ferro inespugnabili come al Dal Molin di Vicenza. La scommessa è costruire nel pozzo nero di Haiti una società civile in grado di manifestarsi senza piangere la carità. Questo é il momento delle emozioni e dei sentimenti; tasche che si aprono e promesse gridate che di settimana in settimana diventeranno centesimi. È sempre andata così. Il primo massacro nelle nostre guerre di pace o le prime banche che balbettano, trasformeranno Haiti in un incubo da rimuovere. Così lontano, poi. Lettori che cambiano pagina, telecomando che cerca risate a buon mercato. Non se ne può più. Sarkozy (imitato da Frattini) invita a “rimettere i debiti”, esercizio dell’ipocrisia travestita da generosità. In realtà i debiti sono già rimessi, Haiti non potrà mai pagare e i debitori devono fare l’esame di coscienza. Finché non è rimasto niente abbiamo portato via tutto e gli haitiani sono diventati nessuno. Se la barca dei balseros cubani si rovescia nel mare della fuga a Miami, sappiamo nome per nome, faccia per faccia, come Fidel “costringe a morire” chi non è d’accordo col regime. Negli ultimi dieci anni, 9 mila haitiani sulla strada dell’esilio clandestino sono naufragati nel Golfo del [singlepic id=147 w=220 h=140 float=left]Messico. Forse diecimila, forse otto: anche i numeri restano incerti. Dei nomi neanche parlarne. Ombre. Vive o morte non contano. Il terremoto apre una scommessa eccitante per la cultura delle società avanzate: trasformare Haiti nel laboratorio universale del duemila. Come disegnare sulle macerie le città del sole di Campanella nell’aggiornamento di uno stato normalmente civile. Con l’acqua nel rubinetto, la lampadina che si accende (oggi solo nel 10 per cento delle case) e l’alfabeto che lega alla vita di tutti. Riammettiamoli al mondo progettando assieme la repubblica della dignità. Dignità è una parola che torna ogni volta a tutela dei deboli, ma resta un progetto difficile da concretizzare per le cattedrali delle mafie, degli affari, della politica, croste che resistono ai secoli: impossibile ricostruire dalle fondamenta la società ideale. Il terremoto non ha sgretolato solo le case; ha cancellato notabilati intrecciati con interessi che sembravano imperforabili. Reti internazionali che il gioco dei soliti poteri impediva di sciogliere. Nell’interminabile minuto dell’apocalisse sono diventati polvere. Protagonisti sepolti sotto i palazzi. Si può ripartire da zero riducendo all’urgenza i cerotti provvisori della solidarietà porta a porta con l’obiettivo non sconvolgente di un normale equilibrio sociale. Intervento radicale e qualche indicazione. Il pulviscolo delle Ong, la cui percentuale ad Haiti è inutilmente la più alta del mondo, va inserito in strategie di settore guidate non dalla politica dei paesi egemoni ma da un inedita assemblea di giuristi, pedagoghi, tecnici, medici, religiosi di ogni tendenza. Direttorio del mondo nuovo da inventare nello spazio di un piccolo paese. Heinrich Böll ripeteva che nel momento in cui si dice o si scrive una cosa ragionevole viene derisa come utopia. Ripartendo dal niente di Port au Prince cosa si può rischiare?
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