Dignità nel lavoro e compensi dichiarati per integrarsi e pagare le tasse. 2 miliardi di euro: potrebbero raddoppiare. Ma i “padroni” preferiscono il lavoro nero. Pochi soldi in mano e silenzio
L’immaginario collettivo del paese è schiacciato sulla rappresentazione dello straniero come pericolo, refrain abbondantemente proposto dai media ufficiali e subdolamente sfruttato dalla retorica politica, a volte esplicitamente, altre con falso pudore. Di fronte al complesso e ricco fatto dell’immigrazione, la reazione difensiva dei cittadini italiani e la risposta istituzionale e politica appaiono -ad un occhio attento- ingiustificate, inappropriate, fuori luogo e in ritardo rispetto al dato reale di un fenomeno che si sta imponendo di per sé stesso. Lo testimonia l’emergere delle “seconde generazioni”, ragazze e ragazzi pienamente italiani tranne che nel cognome; un elemento di novità così ricco di implicazioni da non poter essere sottovalutato, qualora gli italiani e le loro classi dirigenti si decidessero un giorno ad elaborare un progetto credibile sul paese di domani. Eppure pochissimi ne sembrano davvero consapevoli.
Così mentre si investono risorse culturali ed economiche per erigere una fortezza sociale e legislativa che ci protegga dall’improbabile invasione, il nostro paese è già fisiologicamente multiculturale, pur senza volerlo. La mancanza di una presa di coscienza collettiva e l’inconsistenza del processo di integrazione e di scambio tra cittadini nativi e nuovi cittadini sono fatti gravi, pericolosi. Il rischio è di delegare (in bianco) la trasformazione della nostra società agli esiti incontrollabili di un presunto, evocato, scontro tra le differenze, così suggestivamente parallelo al cosiddetto “conflitto di civiltà”.
La percezione di massa degli italiani di fronte al fenomeno migratorio ignora, nel suo pregiudizio interpretativo, quanto sia ormai tecnicamente indispensabile, organico, irrinunciabile, l’apporto dei migranti alla crescita del paese. Basti considerare che la loro partecipazione al PIL ammonta, escluso il reddito in nero di circa un milione di clandestini, al 9% del totale, a fronte della loro incidenza del solo 6,7 per cento sulla popolazione intera; e che il loro gettito fiscale realizza quasi 2 miliardi di euro all’anno.
In relazione a tutto questo diventa urgente, ma avviene raramente, capire cosa gli immigrati pensano dell’Italia, del suo popolo, del suo futuro. Cosa si aspettano. Che cosa sono disposti a dare.
E invece il tema dell’immigrazione regna sovrano solo quando si tratta di cronaca nera. Ma i protagonisti, gli immigrati, cosa ne pensano? Qual è la loro verità? Quale immagine si sono fatta di noi?
Il titolo di una discussione nel forum di Yahoo sull’immigrazione, recitava più o meno: Se io fossi immigrato, avrei paura degli italiani. Non sarebbe il caso di tendere un orecchio alla loro voce?
Osservo il piccoletto mentre decora un cartellone per la sua festa di compleanno. Gli faccio: cosa mi chiederesti per regalo se io fossi il Presidente della Repubblica? Non ci pensa su due volte: che le vacanze di Natale siano più corte, mi dice. E poi conclude: “cosa farò io per 15 giorni, se non posso andare a scuola?”.
Mi spiazza completamente. Nessun ragazzino italiano desidererebbe vacanze più corte.
Glielo dico e lui replica che la scuola in Italia lo diverte, anche se non si capacita dello scarso rispetto che i suoi compagni hanno per gli insegnanti, fatto inaudito per uno abituato alla disciplina delle scuole coraniche. E poi in classe con lui, mi confida, c’è Giada, la ricciolina che, è vero, non lo degna di un solo sguardo ma per cui lui non dorme la notte al solo pensarla. Come farà senza vederla per due settimane?
L’inguaribile romantico è Almas, un quattordicenne afghano. Vive da meno di un anno in una comunità per minori, essendo arrivato tutto solo al porto di Bari, aggrappato alla pancia di un tir traghettato da una nave greca. Era partito dal suo villaggio 4 mesi prima, pagando un trafficante dopo l’altro lungo il percorso, grazie ai 9000 dollari che il padre aveva messo insieme, con prestiti di zii e conoscenti. Centoventi lunghi giorni di spossanti camminate nel deserto, di attraversamenti di montagne, di percorsi in jeep, di confini varcati clandestinamente, di compagni persi, di compagni ritrovati. E poi gli infiniti appostamenti -una volta in Grecia- nel porto di Patrasso, in attesa della volta buona per la traversata verso le coste italiane, fino all’avventuroso e pericoloso imbarco. Un’avventura troppo dura persino per lui, che pure ha familiarità con gli stenti e con i pericoli, essendo cresciuto in una terra traviata dalle guerre e dai conflitti tra clan.
Nel porto pugliese, la polizia lo ha fermato e, come la legge prescrive per i minorenni, è stato affidato ad una comunità per ragazzi. In breve tempo Almas si è ritrovato in una situazione che non avrebbe mai immaginato, lui che l’infanzia l’ha assaggiata appena e che era partito per sgobbare duro così da poter mandare i soldi a casa. Non aveva contemplato infatti tra le possibilità quella di poter fare la vita dell’adolescente. Dell’adolescente in Italia. Va a scuola da qualche mese e ancora fa fatica a spiegare al padre, quando lo sente al telefono, cos’è una comunità. Gli è difficile fargli capire che un minorenne in Italia non può lavorare, ma deve andare a scuola. E che finché non avrà ottenuto l’asilo politico e non sarà diciottenne non potrà avere un lavoro e provvedere materialmente alla famiglia lontana.
Ecco cosa vuole oggi Almas, improvvisamente consapevole di essere solo un ragazzo e quasi alleggerito dell’enorme responsabilità di cui era stato caricato il giorno in cui aveva lasciato casa sua. Vuole una vita normale, una vita da ragazzo. Non che i bisogni della sua famiglia, estremamente povera, siano passati in secondo piano; basti pensare che non spende un centesimo della paghetta settimanale passatagli dagli educatori, per poter spedire periodicamente un gruzzoletto ai suoi genitori. Il punto è che Almas, dopo qualche resistenza iniziale, si è letteralmente abbandonato alla novità e ha deciso di fidarsi degli adulti che oggi si prendono cura di lui, riscoprendosi improvvisamente cucciolo. Il suo bisogno di protezione, di riferimenti, di sicurezze hanno prevalso sull’imperativo paterno del lavoro e oggi sa di voler fare le cose con ordine: prima i documenti, la scuola, la maggiore età, una casa e infine, una volta messo a posto tutto il resto, il lavoro. Almas ha desideri semplici. Vorrebbe avere rapporti normali con i ragazzi della sua età. Vorrebbe non essere guardato, quando è per strada, come un alieno. Vorrebbe un I-Pod. Vorrebbe attirare l’attenzione di Giada. Vorrebbe rivedere presto il papà, la mamma, i fratelli. Vorrebbe conoscere la sorellina nata dopo la sua partenza e vorrebbe aver salutato la nonna prima che lei morisse, qualche settimana fa. Certo vorrebbe anche poter lavorare, poter mandare il necessario per vivere alla sua famiglia. Ma sta lentamente imparando a conoscere il mondo in cui è approdato, quell’occidente benedetto e maledetto in cui gli stranieri non sono i benvenuti, ma in cui l’infanzia è protetta e tutelata, non fosse altro che per legge. E alla fine Almas si è lasciato guidare, rassegnato di buon grado all’idea che qui, in Italia, un ragazzino è un ragazzino e come tale deve poter avere il diritto di vivere.
Anche Nasraw, curdo dell’Iraq, vive in una comunità. Ha 16 anni e racconta di essere scappato alla furia sanguinaria di alcuni parenti che avrebbero voluto fargli pagare con la vita un presunto sgarro del padre, poi morto, a proposito della spartizione dell’eredità di una terra. Partendo ha lasciato a casa la madre e un fratellino piccolo. E ci ha messo sei mesi e più di 11000 dollari, il guadagno della vendita del terreno della discordia, per approdare in Europa. La prima cosa che ha chiesto, dopo il sudato arrivo in Italia e l’accoglienza in una casa per minori, è stata di imparare la lingua. In pochi mesi ha messo insieme, grazie a una forza di volontà non comune e all’aiuto di chi l’ha accolto, un italiano niente male e ha persino accettato di frequentare un istituto professionale. Ha fatto la richiesta d’asilo politico e aspetta di essere chiamato dalla commissione che giudicherà la sua situazione e deciderà se concedergli o meno lo status di rifugiato. Nasraw è molto curioso e il mondo nuovo dove è capitato lo sorprende di giorno in giorno, così diverso da quello da cui proviene e al tempo stesso così distante da come se lo immaginava. La scuola lo entusiasma ma anche lui, come Almas, ha l’ansia di iniziare a lavorare e guadagnare. Nei mesi successivi alla sua partenza, la madre ha contratto dei debiti per mandare avanti la baracca, dal momento che Nasraw era l’unica forza-lavoro della famiglia, e lui è preoccupato, vuole aiutarla, mandarle del denaro. Il suo futuro è ipotecato dai bisogni primari della sua famiglia, non c’è dubbio. Ma il suo sogno, quello di cui non parla troppo e che espone a mezza bocca, come per scaramanzia, è portare qui sua madre e suo fratello, fargli assaporare il gusto di una vita normale, senza pericoli, senza paure, senza l’acqua alla gola.
Latifa ha 13 anni e finalmente vive anche con papà, in un modesto appartamento di un paese di poco più di diecimila abitanti, insieme alla mamma, due fratelli e una sorella. Madre e figli vivevano in Marocco e hanno potuto ricongiungersi al padre, da 12 anni in Italia, solo pochi mesi fa. L’ostacolo che si frapponeva al ricongiungimento era, secondo i parametri della legge, la scarsa metratura della casa per un nucleo di 6 persone. Noureddine, il padre camionista, l’aveva comprata con un mutuo, per poi scoprire che l’ufficio tecnico del comune non la considerava sufficientemente grande per una famiglia (straniera) così numerosa. C’è voluto molto tempo -anni di tentativi- prima che Noureddine giungesse alla conclusione di venderla e di affittarne una più grande. Quella dove oggi vivono tutti insieme. Un po’ come ricominciare da capo.
Latifa è timida ma è tutto un sorriso. Non ha molto da dire o forse non ha ancora abbastanza parole in italiano per dirmelo. Mi concede il suo nome e poco altro. Però mi prepara il tè, sotto l’occhio attento della madre, e me lo serve dolcissimo e fumante di menta. Nel frattempo qualcosa mi dice. Ad esempio che lei vorrebbe imparare bene la nuova lingua, “bene come papà”. Che le compagne di scuola le sono quasi tutte simpatiche. Che la sua insegnante di educazione artistica la riempie di complimenti. E che le piacerebbe fare l’infermiera da grande. “Come Alessia, la mia compagna di banco”.
Serigne è senegalese, ha 21 anni e un buon piede sinistro, per la gioia dei compagni della squadra dilettantistica dove gioca. Si ferma a bordo campo, allontanandosi dalla partitella di allenamento, e fa un po’ di esercizi per sciogliere i muscoli. Ha il piglio dell’intellettuale: “In Italia alla politica non importa l’integrazione. Per noi immigrati c’è solo quella che ti costruisci con il fai da te. E poi l’integrazione non riguarda solo me. Riguarda tutti, anche gli italiani. Ci sono paesi, in Europa, dove c’è un ministro che si occupa esclusivamente degli immigrati. Fa parte della loro cultura, della loro storia, avere rapporti con gli stranieri”.
Saimir invece è un po’ più grande e vive in Italia da quasi dieci anni. Veniva da Tirana ed era un clandestino. È riuscito a ottenere i documenti grazie ad un lavoro regolare e a un decreto di apertura dei flussi. Poi, qualche anno fa, si è iscritto all’università di Macerata, si è laureato in scienze della comunicazione e da un mese ha concluso un master. Il suo italiano è liscio come l’olio: “I giovani migranti come me lasciano le loro case quasi sempre con il sogno e l’obiettivo di trovarne una nuova di casa. Cercano le occasioni che non hanno avuto e che non avranno nel loro paese. Vogliono potere vivere una vita migliore, tutto qui. Quello che non sanno è che l’idea che si sono fatti del paese in cui arriveranno spesso è totalmente falsa. L’Italia per me rappresentava il paradiso in terra. E si è trasformata in un inferno nel giro di pochi giorni, quando vi sono arrivato”. Saimir ripensa spesso al suo sbarco, appena maggiorenne; ricorda bene le sensazioni dei primi giorni, dei primi mesi, dei primi anni. “La prima e più grande difficoltà che i giovani stranieri si trovano ad affrontare è il loro status di clandestinità, condizione in cui quasi tutti quelli che arrivano sono costretti a stare. Lo vuole la legge. Essere clandestino significa nascondersi e affrontare una serie infinita di difficoltà in più, rispetto a chiunque. A partire dalle necessità di base come trovare lavoro, casa, assistenza sanitaria. Si vive nel terrore di essere beccati dalla polizia. Parte di tutto questo persiste spesso anche dopo che ci si è regolarizzati”. Noto che la prima necessità nominata da Saimir è il lavoro. “Certo”, conferma lui, “in questo paese lo straniero è tollerato solo in quanto forza-lavoro, non c’è altra possibilità per lui. Ma io non mi accontento semplicemente di vivere in modo dignitoso, magari invisibile. Quello che rivendico è il diritto di essere considerato parte integrante della società italiana, il diritto di partecipare alle scelte. Voglio essere un cittadino come gli altri. Gli immigrati sono già demograficamente importanti ed economicamente vitali per l’Italia, ma gli italiani non lo sanno ancora”.
Progettare il proprio futuro, anche solo pensarlo, è un lusso per chi può permetterselo. Stretti tra la morsa dei bisogni primari – lavoro, casa e permesso di soggiorno- e la pressione dello stato, dei media e sempre più spesso anche della gente comune, si direbbe che i giovani stranieri non abbiano margini per progettare un futuro. Semplicemente aspettano che si avvicini, per affrontarlo nel migliore dei modi che sarà loro possibile al momento. Le buone idee e le aspettative non mancano a questi ragazzi, ma galleggiano in una specie di stato di sospensione e non riescono a trasformarsi in veri e propri progetti. Hanno ancora scarse certezze su cui fare base, pochi diritti reali a cui fare appello. La precarietà è il terreno che ti manca sotto i piedi e quella dei giovani migranti è assoluta, più grande di quella dei loro coetanei italiani, cittadini a tutti gli effetti. È la precarietà esclusiva degli emarginati a norma di legge, dei non-cittadini.
Giampaolo Paticchio ha 37 anni. È un salentino trapiantato nelle Marche. Si occupa di filosofia, antropologia, immigrazioni e giornalismo partecipativo. Collabora a vari giornali.