L’ultima rivoluzione di tre amici esiliati da Pinochet.
Parafrasando un battuta di Nanni Moretti, si potrebbe dire che Luis Sepúlveda è uno splendido sessantenne con i lineamenti massicci di una maschera india precolombiana. L’abbiamo infatti incontrato a Milano, in occasione della presentazione del suo ultimo libro, allo Spazio Oberdan, nel corso della manifestazione-mostra Las Américas Latinas che ha visto e vedrà la partecipazione di autori del calibro di Alberto Manguel, Padura Fuentes, Héctor Abad, Elsa Osorio. In una sala assiepata all’inverosimile e presentato dallo scrittore e giornalista e amico Bruno Arpaia, Sepúlveda – che appunto compirà sessant’anni i primi di ottobre – si è lasciato andare a una lunga chiacchierata sul suo nuovo romanzo, L’ombra di quel che eravamo, appena pubblicato da Guanda, e anche su se stesso. Lui, che, più che uno scrittore, si considera un raccontatore di storie, di avventure, di persone, di passioni, di speranze e di nostalgie.
L’idea di scrivere questo libro – che narra le peripezie di tre amici che decidono di compiere un’ultima azione “rivoluzionaria”, Lucho Arancibia, Lolo Garmendia e Cacho Salinas – gli è venuta dopo una serata a base di hasado e vino, a Santiago, a casa di un amico, Martín Pascual, il più odiato e ricercato militante durante la dittatura di Pinochet. E tra un pezzo di carne e un bicchiere, un ricordo e forse una lacrima per un compagno caduto, è nato questo romanzo ironico e al tempo stesso commovente, inventario di perdite e di delusioni, ma anche di speranze, di ideali irrinunciabili. Ma sempre con, alla base, un’inesauribile voglia di divertirsi. Ed è in questo senso che Sepúlveda racconta al pubblico una vecchia storiella sulla differenza che passa tra un argentino e un cileno. Dunque. Se un argentino viene abbandonato dalla moglie, va immediatamente dallo psicanalista, si fa curare e, una volta guarito, scrive un tango tristissimo. Un cileno, invece, va subito dal macellaio sotto casa, compra un bel po’ di carne, invita un sacco di amici, fa un hasado, e si ubriaca in compagnia…
Un’avventura “crepuscolare” in cui è anche sempre presente l’esilio, quella “brutta malattia” che ha colpito chissà quanti sudamericani. Esiliati da dittatori come Pinochet o Videla, da padri della patria come Juan Perón, dai narcotrafficanti, dai domenicani, dalle multinazionali, dai rivoluzionari come Castro, dalla Cia, dai filomaoisti, dall’Opus Dei… Ma anche il ritorno, certe volte, può essere altrettanto duro: “L’Itaca che Ulisse ritrova non è la stessa che ha lasciato”, dice Sepúlveda, così come la propria patria, Santiago o Buenos Aires, o Milano. “E quando torni sei come un albero con le radici per aria, non sai dove metterle. E per questo la gente ha sofferto molto”.
E infine il consiglio – soprattutto alle case editrici – di pubblicare maggiormente autori e autrici sudamericani. “L’Europa si sta perdendo una letteratura straordinaria con una grande tradizione alle spalle, estremamente vitale e diversa, dal Rio Bravo allo Stretto di Magellano Una letteratura “di resistenza” per la libertà di espressione, creativa, contro la censura, contro la mediocrità e il monopolio”. E, come già accennato, il libro si intitola L’ombra di quel che eravamo, traduzione di Ilide Carmignani, Guanda, 148 pagine per 14 euro e 50.
Paolo Collo (Torino, 1950) ha lavorato per oltre trentacinque anni in Einaudi, di cui è tuttora consulente. Ha collaborato con “Tuttolibri” , “L’Indice” e “Repubblica”. Ogni settimana ha una rubrica di recensioni su "Il Fatto Quotidiano". Curatore scientifico di diverse manifestazioni culturali a Torino, Milano, Cuneo, Ivrea, Trieste, Catanzaro. Ha tradotto e curato testi di molti autori, tra cui Borges, Soriano, Rulfo, Amado, Saramago, Pessoa.