La recente presentazione del cosiddetto “codice antimafia”, prossimo alla definitiva approvazione da parte del governo in virtù della legge delega già emanata dal Parlamento, rappresenta una vera occasione mancata. È da decenni, infatti, che si attendeva che il legislatore si decidesse a varare finalmente un testo normativo
organico che riunisse e coordinasse l’intero corpus della frammentaria legislazione antimafia, di volta in volta emanata sull’onda dell’emergenza per gravi fatti di sangue. Di qui, la disorganicità, i difetti di coordinamento, insomma quella certa schizofrenia legislativa che è stata per anni la caratteristica della nostra normativa antimafia e che aveva indotto perciò tutti a richiedere un intervento legislativo che riunisse in un nuovo testo unico tutta la materia.
Finalmente, nel 1998 si è insediata presso il Ministero della Giustizia una commissione di studio presieduta dal prof. Fiandaca che aveva proprio il compito di predisporre un testo unico antimafia. Una commissione che fece un lavoro duro, ma incompleto, anche perché le difficoltà della maggioranza che sosteneva quel governo condannò la commissione a una prematura interruzione dei lavori che dal 2000 non venne più rinnovata.
Il risultato fu che il lavoro della commissione rimase negli armadi polverosi del ministero, lavoro che finalmente è stato ripescato da un cassetto proprio in occasione della predisposizione di quello che un po’ troppo pretenziosamente si è voluto definire “codice antimafia”, ma che del codice non ha proprio nulla, trattandosi del mero collage delle varie disposizioni emanate in materia di criminalità organizzata nei più disomogenei settori di cui è costellato il nostro ordinamento.
Inevitabilmente, con queste premesse, la formulazione del testo non poteva che essere ben lontana perfino dallo spirito del testo unico antimafia, essendo totalmente priva di unità sistematica e dei requisiti di completezza e organicità che un testo unico, ed ancor più un codice deve avere. Come dire, molti intenti propagandistici, poca volontà riformatrice. Peccato perché poteva essere l’occasione per ammodernare la materia dove occorrevano interventi di adeguamento della disciplina.
La verità è che questo codice sembra il rimaneggiamento dell’opera per quell’ormai antico testo unico antimafia, ma più di dieci anni dopo i lavori di quella commissione ministeriale. Peraltro, la mafia nel frattempo è cambiata, e quindi questo codice nasce già vecchio. Basti pensare alle sue inadeguatezze per colpire la mafia finanziaria, difettando ancora la previsione dell’incriminazione per autoriciclaggio, sicché oggi è impossibile incriminare un mafioso che si prodiga per riciclare il denaro frutto delle sue stesse attività illecite, mentre sarà possibile condannare solo i suoi complici.
E difetta altresì il recepimento in Italia della direttiva comunitaria prevede l’obbligo di confiscare in qualsiasi paese membro dell’Unione Europea beni che risultino riferibili ad attività criminali commesse in altro paese membro, col risultato che, sulla base del principio di reciprocità, gli Stati esteri hanno spesso rifiutato di eseguire nel loro territorio sentenze di confisca di beni di organizzazioni mafiose italiane. E non è forse giusto parlare di occasione mancata se non si è neppure pensato di rendere finalmente adeguato ed efficiente l’art. 416 ter che dovrebbe punire le relazioni mafia-politica contemplando come tipica promessa politica non certo la consegna di somme di denaro, come oggi previsto, ma provvedimenti politico-amministrativi di favore verso le organizzazioni mafiose?
Per non parlare, poi, di alcune complicazioni nella disciplina delle misure di prevenzione che rischiano di essere dannose, come la nuova previsione di un termine massimo di due anni e sei mesi entro cui definire il procedimento per sequestro e confisca di beni, una sorta di applicazione del “processo breve” anche ai procedimenti di prevenzione che rischia di trasformarsi in un’ulteriore opportunità di impunità per l’economia mafiosa anziché uno strumento in più per l’antimafia, visto che un termine così ristretto appare assolutamente insufficiente, considerata la straordinaria complessità degli accertamenti normalmente necessari per verificare l’origine illecita dei patrimoni. Sbagliamo, allora, nel parlare di occasione mancata? Il rischio è, paradossalmente, di un arretramento piuttosto che di un miglioramento rispetto alla normativa vigente. Non resta che sperare solo che da occasione mancata non si trasformi in occasione perduta. Per sempre.
(Questo articolo è inserito nel numero 76 “Verità e giustizia”, la newsletter di Libera Informazione, approfondimento dell’osservatorio sull’informazione per la legalità e contro le mafie)
Antonio Ingroia è procuratore aggiunto della Dda di Palermo.